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Ce ne siamo accorti tutti, ma ormai lo dicono anche gli scienziati. Da oltre trent’anni la distribuzione della ricchezza si va sbilanciando sempre più a favore del Capitale a discapito del Lavoro. Cos’altro è l’eterno dibattito sulla competitività a cui assistiamo ogni giorno se non la presa d’atto economica di una tendenza che ormai è squisitamente politica?

Ce ne siamo accorti tutti che ormai il lavoro costa, anzi deve costare, sempre meno, pena l’espulsione dai mercati, la crisi da debito, il fallimento. L’intero esperimento dell’eurozona non è altro che la celebrazione su larga scala di una tendenza epocale che vede di nuovo il pendolo della ricchezza spostarsi da dov’era venuto. Verso il Capitale, appunto, con tutte le storture che ciò può provocare a livello macroeconomico globale.

Tale analisi non proviene da un vetero marxista in ritardo sul suo tempo, ma dal Nber, che di recente ha pubblicato un paper intitolato “The global decline of the labor share”, dove gli autori, Loukas Karabarbounis e Brent Neiman dell’università di Chicago, analizzano l’andamento della quota di ricchezza che a livello macroeconomico finisce in appannaggio al lavoro, individuando diverse implicazioni, conseguenti allo spostamento del pendolo della ricchezza verso il capitale, che hanno impatti rilevanti innanzitutto sul welfare.

Lo studio documenta che il declino della quota globale di ricchezza conquistata dal lavoro è in declino almeno sin dal 1980 ed è comune a tutte le grandi società industriali. Tale calo costante viene motivato con l’andamento decrescente del costo dei beni per investimento che hanno indotto le aziende “a spostare risorse dal lavoro al capitale, diminuendo così la quota di reddito per i lavoratori”.

Un processo storico, quindi, legato al costo declinante dei beni d’investimento, che nel periodo considerato è diminuito del 25%, favorita dall’innovazione tecnologica e indirettamente del denaro, cui certo non è indifferente la grande stagione di liberalizzazione dei flussi di capitale iniziata a fine anni ’70, che ha finito con l’abbatterne il costo. Quello che gli autori chiamano “rental rate of capitale”.

A livello percentuale, il declino della quota/lavoro viene quotato intorno al 5% complessivo, negli ultimi 35 anni, che sembra poco ma in realtà è uno spostamento di ricchezza con pochi precedenti nella storia recente. Anche perché è una “sindrome” globale.

Dei 56 paesi monitorati dagli studiosi che dispongono di almeno 15 anni di dati compresi fra il 1975 e il 2012, 38 mostrano infatti un andamento declinante della quota di reddito assegnato al lavoro e “sei sulle dieci maggiori industrie” hanno registrato lo stesso trend, a fronte di due che invece hanno visto il trend opposto. Il motivo è sempre lo stesso: “Paesi e industrie che hanno registrato cali più rilevanti del prezzo relativo di investimento hanno anche sperimentato un grande declino della quota di ricchezza assegnata al lavoro”.

In sostanza, a fronte di cali costante del costo del denaro, le aziende hanno trovato più conveniente investire su fattori produttivi extralavorativi. Il che ha finito con l’impoverire il lavoro a favore del capitale. O, per dirla con le parole dei due professori, “come la quota di ricchezza destinata al lavoro è diminuita, sono aumentati i profitti per le aziende”. E questo, aggiungono “può avere importanti ripercussioni macroeconomiche”.

Per concludere, è utile dare un’occhiata all’andamento della “labor share” nei principale paesi considerati dallo studio, ossia Stati Uniti, Giappone, Cina e Germania.

Per quanto tutti e quattro condividano il declino della quota/lavoro, gli andamenti non sono uguali. Le inclinazioni delle curve americane e giapponesi, infatti, snono molto meno pronunciate di quelle cinesi e tedesche. Ciò vuole dire che il declino sofferto dai lavoratori americani e giapponese è stato meno pronunciato rispetto agli altri.

In comune tutti paesi hanno che il picco di ribasso a sfavore del lavoro si è toccato dopo il 2005, ossia all’apice del trionfo della finanza che ha preceduto la grande crisi.

Con lo scoppio della crisi, che di fatto ha congelato i flussi transfrontalieri, la quota/lavoro torna a salire in tutti i paesi.

Seconda osservazione: la Cina, come la Germania, ha visto crollare la proprio quota/lavoro dalla seconda metà degli anni ’90 in poi (la Cina assai più della Germania). Il calo è proseguito fino al 2008, quando la quota/lavoro ha iniziato a risalire. Quindi i paesi che meglio di tutti hanno interpretato il modello mercantilistico sono gli stessi che più di tutti hanno spostato quota di ricchezza dal lavoro ai profitti.

Il nostro paese non sfugge a questo trend. Nel tempo anche in Italia si è verificato un rilevante spostamento della ricchezza a favore dei profitti. E visto l’andamento declinante dei redditi da lavoro e dell’occupazione, che di fatto deflaziona sempre più il costo del lavoro, non sembra che questa tendenza possa mutare negli anni a venire.

A livello di settori, gli unici che sono sfuggiti a questo trend decrescente son i lavoratori dell’agricoltura e dei servizi finanziari. I primi, con tutta probabilità, perché notevolmente sovvenzionati dagli stati. I secondo perché sono quelli che muovono i soldi.

Ricordatevelo, quando deciderete cosa fare da grandi.

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