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Lo abbiamo scritto mesi fa e lo confermiamo adesso: non è di “saggi” che il nostro Paese ha bisogno, ma di una classe dirigente competente e responsabile, che, almeno sulle riforme, non agisca per la difesa di interessi di parte, ma per quello generale della modernizzazione istituzionale, amministrativa ed economica dell’Italia.
La moda dei “saggi” non è nuova, ma ultimamente sembra essere tornata particolarmente in auge. Ha cominciato Monti, lo scorso anno, con l’incarico conferito a Bondi, Amato e Giavazzi. Almeno, l’ex premier si è tenuto basso nel numero dei prescelti: Napolitano, qualche mese fa, era già salito a 10, mentre Letta, poco dopo, è arrivato a 35.
Dell’operato dei “saggi” di Monti, come di quelli di Napolitano, non è rimasta altra traccia che quella di Note e Relazioni, sicuramente utili, ma che, francamente, un giovane laureato, brillante e accurato, avrebbe potuto stilare senza difficoltà, oltre che, certamente, con meno clamore.
Va da sé che sul risultato prodotto dai “saggi” hanno inciso, sin qui, il poco tempo a disposizione, la scarsità di mezzi e, soprattutto, il limite del loro mandato, totalmente privo della possibilità di condizionare le decisioni a seguire di Governo e Parlamento. Tanto che del loro operato – sia dei 3 che dei 10 “saggi”- l’opinione pubblica non ricorda alcunché.
Naturalmente, la colpa del nulla di fatto non è dei “saggi”, chiamati a un ruolo di sicuro prestigio ma anche di facile critica per i motivi suindicati, non difficili da prevedere per gli stessi interessati.
Con questi precedenti, ha stupito che l’attuale Governo abbia deciso non solo di ricorrere ad altri “saggi”, ma addirittura di incaricarne un numero tale da rendere poco plausibile il fine stesso della Commissione che andranno ad animare. Se, infatti, il fine doveva essere facilitare la stesura di una bozza di riforme coerenti in tempi brevi, non si capisce come ciò possa essere possibile in un gruppo di trentacinque persone. Se è vero, infatti, che gli estensori della Carta del ’48 furono il doppio, è vero anche che allora si trattò di politici, non di tecnici, e come tali direttamente responsabili delle posizioni da assumere. I “saggi” del momento, invece, non possono parlare per questo o quel partito, in più con il paradosso che, invece, sono stati scelti così numerosi proprio perché ogni partito si sentisse tutelato. Insomma, un vero pasticcio, che offende i compiti e l’autorevolezza del Parlamento, il quale non solo ha la titolarità istituzionale delle riforme, ma dispone anche dello strumento che consente snellezza delle decisioni e concentrazione delle specifiche competenze necessarie: la prima Commissione Affari Costituzionali di Camera e Senato.
Stando così le cose, non è difficile concludere che i “saggi” pro-tempore, per quanto stavolta abbiano a disposizione molti mesi (persino troppi per il tipo di mandato che il governo di larghe intese si è dato), non serviranno altro che a lasciare in eredità l’ennesimo Dossier. In altre parole, come già in passato, i “saggi” sono funzionali al Governo per prendere tempo, nel frattempo fornendo un alibi inconsistente allo stop di fatto subito dalla riforma elettorale, la più urgente e, per la sua natura di legge ordinaria, la più immediata.

Saggi, l'alibi inconsistente della classe politica

Lo abbiamo scritto mesi fa e lo confermiamo adesso: non è di “saggi” che il nostro Paese ha bisogno, ma di una classe dirigente competente e responsabile, che, almeno sulle riforme, non agisca per la difesa di interessi di parte, ma per quello generale della modernizzazione istituzionale, amministrativa ed economica dell’Italia. La moda dei “saggi” non è nuova, ma ultimamente…

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