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Matteo Renzi ha ragione: stiamo perdendo tempo! Il sindaco di Firenze ha posto la questione in questi termini, al convegno sui 150 anni della Cgil, dolendosi dello sprint che manca al nostro Paese. D’altronde, è noto che le imprese sono al collasso e, sebbene il sistema sia sopravvissuto senza politica per molti anni, non è possibile restare ancora un minuto senza esecutivo. In quest’ultimo mese di passione, infatti, la paralisi nell’amministrazione statale è diventata un incubo. Ed è facile capire l’opportunità di erigere una commissione di saggi da parte del capo dello Stato. Un’opzione astuta, ponderata, di mestiere, che dà un po’ di fiato ad un Paese che cerca invano la bussola politica.

La colpa di tutto sembra avere un nome: Pierluigi Bersani. E’ una semplificazione che comunque non lo scagiona. Forse è vero quello che un profondo conoscitore della sinistra mi ha detto qualche giorno fa: nessun amministratore delegato può fare quello che i consiglieri non vogliono. E, nello specifico, la valutazione di Bersani è che la sua compagine politica, i militanti del suo partito, non accetterebbe mai di digerire il boccone amaro di governare con Berlusconi. Messa così la sua preferenza non è libera, e appare meno assurda. Fatto sta che il niet dei grillini ad ogni possibile intesa con lui costringe per forza Bersani alle corde, equiparando il suo antiberlusconismo “morale” alla presunta “immoralità” di Berlusconi e generando un corto circuito infernale.
Intanto che il Pd pensa cosa fare, al Pdl si aprono spazi di azione. Il segretario Angelino Alfano ha potuto facilmente accusare di mentalità settaria la sinistra che non sembra aperta ad un dialogo minimo con il centrodestra. Tutto vero, sebbene sia facile vantare il senso dello Stato quando l’alternativa è divisa a metà tra populismo e sclerosi identitaria.

Monti adesso procede d’inerzia, mentre la partita si sposta sul Quirinale. L’elezione del presidente inizierà tra meno di quindici giorni. Non è tanto la scelta della persona giusta a muovere le trattative, ma la formula e il metodo che sarà adottato. Sul tappeto vi sono tre ipotesi. La prima, illustrata da Franceschini in Tv, prevede di restare nell’ambito della soggettività del Pd. Enunciare la logica del presidente di tutti, ma andare repentinamente verso un candidato della sinistra eletto con il concorso dei montiani o di qualche grillino dissidente. Se si favorisse questa parabola, rapidamente saremmo impantanati in uno scontro lacerante tra lo Stato e la democrazia. Poniamo, infatti, che il presidente fosse Romano Prodi, è chiaro che il Pdl vivrebbe la sindrome del perseguitato di Stato, allignando la sintomatologia del popolo escluso.

La seconda ipotesi è, invece, avere un presidente amico del Pd ma votabile pure dal Pdl. In questo caso terremmo la soluzione che ad oggi è la più sensata, ossia la presidenza di Giuliano Amato, di Franco Marini o di Massimo D’Alema. Uno diversamente dall’altro finirebbe, tuttavia, per creare una condizione di stallo che avvantaggerebbe il grillismo, rendendo impossibile, ancora una volta, dare piena legittimazione al centrodestra.

La migliore delle ipotesi, allora, è la terza. Un presidente a legittimazione aperta, di area Pdl, gradito e digerito bene dal Pd. In quest’ultimo scenario, infatti, il centrodestra avrebbe una garanzia in alto che aprirebbe la via ad un Governo riformista di centrosinistra, magari guidato da Renzi. L’Italia troverebbe insomma un presidente della Repubblica garantista capace di aprire una stagione di riforme istituzionali, prima di tornare alle elezioni. Purtroppo, una combinazione perfetta di questo genere sarebbe possibile soltanto se il Pd accettasse la sfida del cambiamento interno, promessa da Renzi alle primarie, rottamando dall’alto la sua dirigenza. Come ha fatto, a suo modo, la Chiesa eleggendo papa Francesco.

Le colpe di Bersani e la ragione di Renzi

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