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Le nostre istituzioni sono sempre più attive nel promuovere l’internazionalizzazione delle aziende nostrane. Tale alacre lavorio, che si rivela ancora più importate in un momento di stanca del nostro mercato interno, dovrebbe tuttavia confrontarsi con un rovescio della medaglia sempre più visibile. Analisi del problema e soluzioni apportate (da altri).

Secondo i dati recentemente pubblicati il numero di giovani che hanno deciso di lasciare il nostro paese è cresciuto lo scorso anno del 30 per cento. Purtroppo tale tendenza sembra verificarsi sempre più anche per ciò che riguarda le aziende nostrane.

Dopo le cifre rese note dall’Aire, i dati diffusi dall’Agenzia Francese per gli Investimenti Internazionali e ripresi da Formiche disegnano, almeno sulla Francia, uno scenario per certi versi grigio per il nostro paese.

Mai cosi tante imprese italiane avevano investito in Francia nel corso degli ultimi 5 anni (+ 37% rispetto al 2011). Ancora più eclatante è il fatto che, in un momento in cui i giovani nostrani partono all’estero per mancanza di lavoro, gli investimenti italiani hanno permesso di creare o mantenere, nel solo corso del 2012, oltre 2100 posti di lavoro in Francia (+31 % rispetto al 2011).

Se da un lato è giusto evidenziare, come fattore positivo, il forte dinamismo delle nostre imprese su un mercato difficile, dall’altro ci si deve però interrogare su cosa abbia fatto il nostro paese per cercare di trattenere da questo versante delle Alpi tale patrimonio industriale. Se è vero che aziende più presenti sui mercati internazionali cresceranno di riflesso anche sul mercato domestico, è tuttavia lecito chiedersi quanti di quei posti di lavoro sarebbero potuti essere creati direttamente in Italia?

Dal canto suo, la Francia, questo calcolo l’ha già fatto. A Gennaio il Ministro per il “redressement productif” ha, infatti, annunciato un vasto programma teso a sensibilizzare le aziende francesi affinché rimpatrino le proprie attività produttive. Il Governo francese avrebbe inoltre già identificato circa 300 multinazionali transalpine alle quali verranno offerte consulenze gratuite per aiutarle a valutare il costo di un eventuale rientro in patria.

Tale strategia non è del tutto nuova: ricalca in parte il programma di “re-shoring” lanciato dall’amministrazione Obama. L’iniziativa americana, considerata da molti un successo, offre assistenza personalizzata alle multinazionali americane per valutare dove – negli States – sia più conveniente tornare prendendo in considerazione specifici fattori di costo (energia, terreni, lavoro, trasporti, logistica, ecc.). Abbastanza sorprendentemente le analisi condotte permettono spesso, alle aziende interessate, di concludere che produrre in America può rivelarsi poco più caro che produrre in Cina.

Invece di indignarsi se i nostri giovani lasciano l’Italia, non sarebbe forse il caso di creare i prerequisiti per trattenerli?  Non sarebbe quindi auspicabile integrare nella nostra strategia diplomatica per la crescita un programma in linea con quello dei nostri partner, o forse, dovremmo chiamarli competitor?

Il cambio alla Farnesina sarebbe forse l’occasione giusta per introdurre un nuovo corso della diplomazia economica italiana. Il varo di una politica simile allo re-shoring alla francese potrebbe costituirne un primo importante passo.

Le opinioni espresse sono puramente personali e non rispecchiano le posizioni dell’Istituzione di appartenenza.

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