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Ciò che sta accadendo in Turchia, con almeno due morti secondo Amnesty, è la plastica raffigurazione di come un processo verso la democrazia si scontri con scogli atavici e drammaticamente immobili. Che forse fino ad oggi sono stati mascherati e chiamati con un nome diverso da quello reale. Il no alle politiche pro-islamiste del governo Erdogan, sfociate nella protesta per la costruzione di un mega centro commerciale, non possono trovare sulla propria strada violenza e repressione. Come se anziché nella civile e moderna (almeno così la definiscono gli amministratori turchi) Istanbul, ci trovassimo in Siria o in Libia: perché questo è il piano delle cose, piaccia o meno. Sotto gli occhi di un’Europa (tanto per cambiare) attonita ecco le enormi contraddizioni che affliggono la Turchia moderna, l’elite che non riesce a districarsi tra il ricambio generazionale di un premier giunto alla scadenza del suo mandato e la voglia di occidentalizzarsi senza se e senza ma. 

Dove la tradizione islamica e la falange rappresentata dai militari sono due zavorre forse troppo pesanti per essere trasportate anche per un solo miglio. La repressione crudele e sanguinosa andata in onda in questi giorni non è accettabile da chi si professa moderno, laico e desideroso di essere guardato con altri occhi. Perché violenza genera violenza, perché non è con lacrimogeni o con getti di acqua negli occhi che si insegna il rispetto per le regole o che si consente la libera manifestazione di pensieri e opinioni. La reazione delle forze dell’ordine altro non è che l’ennesimo passo compiuto da Erdogan verso l’attuazione di un’agenda islamica tout court, che vuole imporre uno status religioso e un proibizionismo inaccettabile. E lo dimostrano le restrizioni al consumo di alcool o all’abbigliamento andate in sena nelle ultime settimane: provvedimenti che un governo è libero di adottare, ma a patto che un attimo dopo non pretenda di essere epitetato come moderno, democratico ed europeo.
La società turca oggi appare frammentata nelle sue viscere, e accusa un desiderio di concretezza sociale che le parole e gli slogan di una classe dirigente forse troppo presa dalla foga di mettersi in mostra e di dare lustro al boom economico, non ha gli strumenti per realizzare. E la piazza Taksim, con i millesettecento manifestanti arrestati, è lì a dimostrarlo. La rapida espansione dell’economia turca, con la notizia della costruzione del terzo ponte sul Bosforo e del secondo mega aeroporto della capitale, non può portare automaticamente un progresso sociale e intimamente politico se non sarà accompagnata da una profonda trasformazione della stessa classe dirigente. Più pil e più volume di affari non sono sinonimi di miglioramento della qualità della vita o di più diritti.
A prima vista, la “primavera di Turk”, così come è stata ribattezzata, può essere un’occasione, forse l’ultima, per fare chiarezza su Europa, allargamento e progresso sociale di un pezzo di Medio Oriente che ha vissuto in una contraddizione di fondo. Dove quei cittadini si sentono europei, moderni e vogliosi di diritti, mentre una classe dirigente pigra e dalle voglie espansionistiche, come dimostrano i continui e provocatori sconfinamenti di fregate militari turche in acque greche, dimostra di aver recitato un copione. Sbiadito e non più credibile.

Mondo Greco

twitter@FDepalo

 

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