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Per tutta la vita mi è rimasta impressa una frase che lessi, da liceale, nel testo di letteratura latina. L’autore – Concetto Marchesi grande latinista, con il solo difetto di essere comunista per di più stalinista – commentava lo stile letterario di Seneca, soffermandosi sull’uso delle parole della quotidianità con le quali il grande filosofo era in grado di svolgere con semplicità le sue considerazioni. E finiva il capitolo così: “Ma di parole che tutti odono sono scritte le frasi che nessuno ha udito mai”.

È proprio vero. Solo gli arroganti e gli imbecilli usano parole di cui le persone normali non comprendono il significato. I leader veri si fanno capire e risvegliano, in quanti li ascoltano, sentimenti a loro sconosciuti fino al momento in cui quelle magiche parole sono entrate in sintonia con quanto essi nutrivano nel profondo del loro animo.
Questo è il senso dei discorsi che hanno fatto la storia: non si tratta di dire alla gente ciò che vuole sentirsi dire. Sono i demagoghi che riescono benissimo in questa impresa. I leader posseggono la maieutica per tirar fuori dalle persone il meglio che esse hanno dentro di sé magari senza esserne consapevoli.

Così mentre ascoltano quelle parole i popoli avvertono una trasformazione interiore che li allontana dai pensieri e dalle opinioni che avevano fino a pochi minuti prima. Un grande discorso ha in sé qualcosa di prodigioso; raggiunge, coinvolge e fa crescere gli astanti. Si pensi al discorso delle beatitudini di Gesù: in poche frasi il Signore accende in chi lo ascolta la speranza di ottenere giustizia. Ma non scomodiamo il Vangelo quando anche sulla terra si sono udite parole comuni capaci di costruire frasi che hanno mosso le montagne, accompagnato le marce degli eserciti, consolato la sofferenza di milioni di persone.

Sto leggendo in questi giorni un libro (“Ask not” di un autore americano, Thurston Clarke) in cui viene narrata meticolosamente in oltre 250 pagine la cronaca della stesura del discorso di John F. Kennedy pronunciato il giorno dell’insediamento alla Casa Bianca, il 20 gennaio 1960. Il sottotitolo è tutto un programma: il discorso che cambiò l’America.
Tempo fa mi capitò di leggere un saggio – anch’esso piuttosto voluminoso – che faceva la medesima ricostruzione di un altro memorabile discorso: quello di Abraham Lincoln a Gettysburg. La Guerra civile non era ancora terminata, in quella battaglia si erano sbudellati decine di migliaia di americani, eppure Lincoln riuscì ad indicare a quegli animi ossessionati dal conflitto fratricida una speranza di riunificazione nazionale.

Kennedy parlò solo quindici minuti, Lincoln addirittura tre; ma quei discorsi vivranno fino a quando “il governo del popolo, dal popolo e per il popolo, non avrà fine sulla Terra”. Discorsi memorabili furono fatti da Winston Churchill e da Franklin D. Roosevelt durante la Seconda guerra mondiale, nei momenti più difficili quando le famiglie dovevano mandare i loro figli a morire in tutte le parti del mondo.

Qui mi fermo; questa lunga premessa mi è servita soltanto per inquadrare una opinione: ho seguito sulla tv ed ascoltato il discorso di insediamento di Giorgio Napolitano e non ho dubbi a collocarlo tra i grandi discorsi nella storia dei popoli. Le parole del presidente sono destinate a durare anche quando – ci auguriamo che sia presto – l’Italia vivrà una fase di maggiore serenità e sicurezza. Per farne comprendere il significato ai giovani di domani sarà necessario inquadrare quell’intervento nella stagione che il Paese sta vivendo.

Del resto anche i discorsi di Lincoln e di Kennedy erano figli del loro tempo (il primo della tragedia della guerra civile; il secondo dell’influenza che la minaccia nucleare aveva sui popoli di allora). Ma il filo rosso che lega quelle frasi datate è in grado di parlare all’Umanità anche adesso. E per sempre.

Napolitano si è trovato a gestire una crisi che si avvitava su se stessa. Di tale vicenda i giovani di domani troveranno, forse, memoria in una nota a piè di pagina nel libro di storia. Ma quando ha stigmatizzato il sentimento di “orrore” con cui vengono considerate le intese e le mediazioni, denunciando la “regressione” della politica, quando ha criticato l’eccessiva “leggerezza” con cui si è fatto strame e bersaglio delle istituzioni democratiche, quando ha riconfermato il ruolo insostituibile del partiti in un sistema democratico, quando ha evocato l’esigenza di affrontare i problemi con il realismo derivante dai rapporti di forza e senza contrapporre la piazza al Parlamento, il vecchio presidente ha scolpito nel bronzo di cui è composto il monumento che gli esseri umani hanno elevato alla politica, fin dalle origini del Tempo. Napolitano ha usato parole di tutti i giorni per scrivere frasi che resteranno nella memoria di tutti noi e che tramanderemo a coloro che verranno dopo, affinché il governo del popolo, dal popolo, per il popolo non abbia fine sulla Terra.

Il discorso che Re Giorgio tramanda ai posteri

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