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C’è una data nella vita italiana e di Romano Prodi che non può passare inosservata: il 3 aprile di trentacinque anni fa, quello che da lì a poco sarebbe salito sul ponte di comando della corazzata Iri, prende parte a una seduta spiritica. Sono giorni complessi per il Paese, stretto nella morsa della guerra fredda e dei ricatti.

Le Brigate Rosse annunciano che il loro processo ad Aldo Moro si è concluso con la condanna a morte dell’imputato, papa Paolo VI si rivolge alle Br chiedendo loro la liberazione dello statista. Mentre Ezio Riondato, docente di filosofia a Padova e a capo della Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, viene gambizzato.

Prodi annuncia che un’entità, che da verbale ufficiale pare si riferisse a La Pira e Don Sturzo, indica Gradoli come luogo di prigionia dello statista pugliese rapito dalle Br. Ma mentre la moglie di Moro suggerisce subito che dovrebbe logicamente trattarsi della romana via Gradoli, gli investigatori “virano” sull’omonimo paesino nella Tuscia.

Ma la segnalazione Prodi la trasmette solo due giorni dopo a Umberto Cavina, portavoce di Benigno Zaccagnini. Confusione, e tanta. Ma Gradoli non spunta per la prima volta nell’inchiesta Moro, un mese prima del contatto spirituale di Prodi con i maestri democristiani, una soffiata ai servizi indica via Gradoli a Roma (al civico numero 96) come possibile rifugio dei terroristi.

Si procede ad una perquisizione, ma all’interno 11 nessuna risposta. Apre la porta invece tale Lucia Mokbel, la vicina, che dichiara di aver percepito strani rumori simili a quelli prodotti dall’alfabeto Morse. La legge imporrebbe agli agenti di approfondire, quantomeno di segnalare la cosa e suonare una seconda volta a quel famigerato interno 11, per una serie di ragioni. Perché l’Italia è in guerra, per il clima di terrore che c’è nel paese, perché è stato rapito Aldo Moro. Gli agenti invece si allontanano.

Poi Prodi incrocia i suoi destini con la commissione parlamentare di inchiesta che indaga sul rapimento Moro nel giugno del 1981 e nel 1998 quando il caso viene riaperto. In questa occasione non si dice disponibile ad essere ascoltato. Non altrettanto fanno Mario Baldassarri, poi viceministro dell’Economia del governo Berlusconi, e Alberto Clò, ministro dell’Industria nel governo Dini, tutti e due presenti a quella seduta spiritica.

Ma c’è un’altra data che resta scolpita sul caso Moro e nella storia dell’ex presidente della Commissione Europea. Nel 2004 (sempre ad aprile) è sentito come testimone dalla Commissione parlamentare d’inchiesta concernente il dossier Mitrokhin, in cui il presidente Paolo Guzzanti sostiene che Prodi non ha avuto “il coraggio di pronunciare le parole seduta spiritica, piattino o tazzina”.

Ma c’è di più. Agli atti della seduta è messo un articolo pubblicato sul settimanale Avvenimenti, in cui Giuliana Conforto, figlia di Giorgio, agente del Kgb, avrebbe dato riparo ai brigatisti Morucci e Faranda. Un’amica della Conforto avrebbe affittato il noto appartamento di via Gradoli al commando delle Br. La tesi sostenuta in quell’audizione era che fu il Kgb a rendere noto il covo di via Gradoli, mentre il “teatro” della seduta spiritica sarebbe stato inscenato per coprire la vera fonte. Ma Prodi, a quell’ipotesi, scelse di non replicare.

twitter@FDepalo

Prodi, Moro e quella seduta spiritica sul covo delle Br

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