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Pubblichiamo l’articolo di Mario Morcellini e Simone Mulargia apparso nel numero della rivista Formiche di gennaio.

Nel maggio del 2001, i lettori di Scientific American ebbero la possibilità di entrare in contatto con una raffinata riflessione sul ruolo che la rete avrebbe avuto nel trattamento della semantica delle informazioni che fluiscono tecnicamente all’interno dei suoi nodi. Lo sguardo anticipatore dei ricercatori, tra i quali spicca il nome del creatore del web, si concentrava proprio sulla possibilità che le macchine leggessero il significato delle pagine che si pubblicavano, anche al fine di rispondere in maniera più efficiente alle domande dei fruitori della rete. Tra il ‘97 e il ‘98 Larry Page e Sergey Brin avevano trasformato in un’attività commerciale (Google) i frutti della loro tesi di dottorato riguardante nuovi algoritmi per la ricerca di informazioni sulla rete.

A distanza di circa dieci anni da questi due passaggi, scelti evidentemente come emblemi di uno sviluppo tecno-culturale di più ampio respiro, l’utente medio della rete può sperimentare una certa fiducia nella possibilità di entrare realmente in contatto con l’informazione di cui ha bisogno. Google è oggi un protagonista della nostra esperienza di Internet. Alcuni dei suoi servizi, quali ad esempio il motore di ricerca dei libri (Google books) o quello dedicato ai paper scientifici (Google scholar) hanno cambiato in profondità la postura comunicativa contemporanea per quanto riguarda specifici settori del sapere. Per non parlare della possibilità di pianificare un viaggio o di fare una passeggiata virtuale attraverso i percorsi digitalizzati di Google maps. Se poi ricordiamo che il grande archivio mondiale dell’audiovisivo – you-tube – appartiene anch’esso alla galassia Google, comprendiamo che l’azienda americana ha un ruolo fondamentale nel dare forma all’esperienza concreta della rete.

Queste appena descritte possono essere almanaccate tra le luci del colosso di Mountain View, ma non mancano certo gli aspetti critici, che crescono parallelamente all’aumentare delle sue quote di mercato, soprattutto quando Google smette di essere il miglior interprete della competizione tra gli operatori della rete e diventa protagonista assoluto. In altre parole, monopolista. E la questione esce dai tecnicismi economici per affondare pesantemente nell’etica quando alcuni utenti di Internet – verosimilmente cittadini di Paesi poco democratici – si affidano al motore di ricerca per approfondire temi di loro interesse quali il concetto di censura o di libertà di espressione. Il caso cinese è un pessimo esempio di come la tanto esaltata performatività (e neutralità) dell’algoritmo di ricerca scende a pesanti compromessi con la peggiore ragion di Stato.

Se le considerazioni appena esposte appartengono all’attualità dei rapporti di forza tra player del mercato dell’innovazione, è necessario cambiare prospettiva per affrontare la questione da un punto di vista più propriamente ancorato alle scienze sociali, proprio perché una delle maggiori questioni in sospeso quando si ragiona di governo della rete è la tendenza a lasciare che l’agenda sia dettata dal ritmo delle innovazioni tecnologiche e non da un’intelligenza dei rapporti sociali che di quelle innovazioni sono espressione. Su questo è necessario essere chiari: Google, per meriti innegabili che attengono sia alla sua capacità di spostare in avanti il confine della sua performance, sia per indubbie capacità leaderistiche del suo management ha, di fatto, assunto le dimensioni e l’autorevolezza di una sorta di servizio pubblico digitale. Lo è per la forza economica che esprime, ma soprattutto per i temi che rientrano nelle sue sfere di competenza. Ma è, a tutti gli effetti, un soggetto privato che gestisce una merce estremamente sensibile come l’informazione e in senso più ampio l’accesso al sapere e alla conoscenza.

Ecco perché gli interrogativi non attengono neanche ai comportamenti già posti in essere, ma interpellano la legittimità di tale funzione di supplenza. Per essere espliciti: ammesso che sino a qui la condotta di Google sia stata ineccepibile (e già su questo punto non mancano voci discordanti) resta da chiedersi se sia auspicabile che la maggiore porta di ingresso ai tanti contenuti della rete debba rispondere ai propri bilanci e non a una qualsivoglia idea di bene universale. Non si tratta di invocare un principio etico, né di rimettere in campo un’ansia da interventismo statale che sembra essere incompatibile con la logica transnazionale della rete. Ma anche all’interno del web esistono esempi di governance più condivisa, che cercano quantomeno di allargare il cerchio dei decisori. A un livello più propriamente teorico, Google rappresenta uno dei tanti apparenti paradossi di Internet. La retorica pubblica che accompagna lo sviluppo della rete di computer, infatti, disegna un network di nodi equivalenti e attivi, capace di eliminare qualsiasi istanza di mediazione (sia essa giornalistica, politica o legata al mondo della formazione).

Ma a ben guardare, a essere messa in discussione è la legittimità sociale del valore della mediazione e non la geometria reale dei rapporti in campo. Google, infatti, che sembra interpretare al meglio le istanze di orizzontalità di Internet, è di fatto uno straordinario soggetto di mediazione che, insieme ad altri colossi della rete, offre un’esperienza di navigazione sicura e affidabile a patto che non si esca dai confini del suo ben costruito walled garden. La Rete rappresenta una straordinaria opportunità di crescita e di sviluppo sia culturale sia economico e le risposte alle preoccupazioni che abbiamo prospettato non potranno essere trovate a prescindere dalla rete stessa. Ma la speranza (diremmo fideistica) che lo sviluppo tecnologico contenga in sé i giusti anticorpi contro l’accentramento e la mancanza di pluralismo non trova conferme empiriche nel passato recente e rischia di entrare a far parte delle tante promesse mancate della comunicazione.

Google, protagonista indiscusso di Internet

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