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Ci vogliono 41 ore di viaggio in auto più nave da Roma a Damasco. In Siria, dall’inizio delle rivolte, le stime delle vittime hanno raggiunto l’agghiacciante cifra di 45.000: si può dunque dire che il figlio Bashar abbia superato il padre Afez el Assad in quanto a repressione. Eppure sembra quasi un non notizia.

Papa Benedetto XVI ha fatto un appello per la pace in Siria, nazione “profondamente ferita e divisa da un conflitto che non risparmia neanche gli inermi e miete vittime innocenti”. “Cessi lo spargimento di sangue”, ha detto nel suo messaggio natalizio Urbi et Orbi, “e, tramite il dialogo, si persegua una soluzione politica al conflitto”.

Ogni giorno, però, passa quasi inosservata la denuncia di una strage di civili, magari in coda per il pane, magari soprattutto donne e bambini, mentre cresce l’elenco delle diserzioni illustri negli alti gradi dell’esercito e delle forze fedeli al rais alauita.

Negli Stati Uniti d’America, una strana e comoda interpretazione della dottrina obamiana del “leading from behind“, ovvero guidare il mondo senza esporsi troppo, e il dibattito caldissimo sul Fiscal Cliff da evitare, stanno tenendo l’Amministrazione distante dalla zona di crisi, peraltro in una fase di passaggio delle consegne tra Hillary Clinton e John Kerry al Dipartimento di Stato. Eppure era stato lo stesso presidente, Barack Obama, già premio Nobel per la pace e uomo dell’anno secondo Time, a spiegare come fosse l’utilizzo di armi chimiche la linea rossa da non superare per il regime di Damasco pena l’intervento americano.

Ora ci sono le prime dichiarazioni di fuorusciti del regime e di testimoni in merito all’utilizzo di gas o simili. L’Amministrazione Obama attende prove certe, ma sta rischiando l’irrilevanza geopolitica nella regione e non è un rischio di poco conto per la principale potenza al mondo.

Non molto più attiva è l’Europa, alle prese con le sue divisioni e con le feste di fine anno, dopo che l’Eliseo aveva riconosciuto, all’inizio in solitaria, il governo provvisorio dei ribelli anti Bashar.

In Italia il tutto è reso ancora più distante dalla crisi che morde, da un governo in carica soltanto per il disbrigo degli affari correnti e dalla campagna elettorale in partenza. Ma la grandezza di un Paese, dei suoi politici e di coloro che intendono “salire” in politica si coglie anche nella capacità di saper “salire” anche in politica estera, di saper affrontare argomenti che soltanto in apparenza sono lontani dai nostri interessi.

Non di solo Imu, in sostanza, vive la politica e i cittadini lo sanno. Del resto, il governo tecnico ha di recente preso una decisione politica non di poco conto, come votare all’Onu il riconoscimento della Palestina come stato osservatore: non sarebbe dunque improprio per alcuni dei suoi esponenti, soprattutto quelli in procinto di fare il salto (in alto) in politica, eprimersi su una tragedia di tale portata.

Sarebbe, anzi, un segno di importante cambiamento e di vitalità politico-culturale il fatto che un argomento come il dramma siriano riuscisse almeno a trovare uno spazio di confronto di idee e di racconto nel nostro concitato dibattito nazionale (ed europeo). Invece spiace constatare come soltanto poche eccezioni in merito possano essere annoverate.

(sintesi di un’analisi più ampia che si può leggere qui)

Obama, Merkel e Monti sull'orlo del Syrian Cliff

Ci vogliono 41 ore di viaggio in auto più nave da Roma a Damasco. In Siria, dall'inizio delle rivolte, le stime delle vittime hanno raggiunto l'agghiacciante cifra di 45.000: si può dunque dire che il figlio Bashar abbia superato il padre Afez el Assad in quanto a repressione. Eppure sembra quasi un non notizia. Papa Benedetto XVI ha fatto un appello per…

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