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In tempi elettorali ragionare sulla ricchezza di un Paese conduce di rado a qualcosa di buono, specie in tempi di crisi. Si offrono strumenti a chi soffia sul vecchio conflitto di classe o a quelli che offrono soluzioni a gettone per questioni complesse come la ridistribuzione del reddito o del carico fiscale. E tuttavia chi voglia capire come stiamo oggi non può prescindere dal guardarsi indietro e vedere come stavamo. E l’analisi della ricchezza è un indicatore sociale assai eloquente, a volerlo leggere.

Perciò ci siamo armati di pazienza e ci siamo andati a ripescare alcuni quaderni della Banca d’Italia che parlano della ricchezza delle famiglie italiane ricavandone alcune indicazioni assai istruttive.

Cominciamo dalla fine. Da fine 2011, per essere precisi. La ricchezza totale delle famiglie viene calcolata in 8.619 miliardi di euro, il 62,8% in attività reali (immobili e altro), pari a 5.978 mld, il 37,2% (3.541 mld) in attività finanziarie (depositi, titoli e altro). Le passività, quindi i debiti, erano 900 miliardi, ossia il 9,5% del totale della ricchezza. La ricchezza è in calo del 5,8% dal 2007, quando ha toccato il suo picco (sempre a prezzi 2011) di 9.151 mld.

Rispetto al passato le attività reali sono cresciute a scapito di quelle finanziarie. Quindi il valore crescente del mattone si è mangiato quello della finanza. A fine 2011, nota Bankitalia, “il livello di ricchezza è simile a quello di fine anni ’90″, con l’avvertenza che nel frattempo le famiglie sono aumentate di 5 milioni di unità e si sono “ristrette”: da 2,9 a 2,5 individui per nucleo.

Ultimo dato utile per capire come stiamo, l’indice di distribuzione della ricchezza: l’indice Gini. Quest’ultimo oscilla fra 0 e 1, quindi fra minima concentrazione e massima concentrazione. Nel 2011 quest’indicatore misurava 0,624 in crescita dallo 0,62 del 2010 e dallo 0,61 del 2008. Nell’ultimo triennio, quindi si è avuta un’ulteriore concentrazione di ricchezza nel 10% delle famiglie che detiene il 45,9% della ricchezza complessiva (era il 44,3% nel 2008). Chi ha soldi non risente della crisi, ma anzi se ne avvantaggia.

Anche qui, Bankitalia nota che il valore 0,62 è in linea con i valori di fine anni ’90. Quindi chi dice che l’introduzione dell’euro abbia favorito la concentrazione della ricchezza dice una corbelleria.

Vero è però che non siamo sempre stati così. Solo che bisogna fare un bel passo indietro. Addirittura all’inizio degli anni ’90. Praticamente l’età dell’oro del ceto medio italiano.

Per capire come eravamo, fra il 1990 e il 1992, basti sapere che l’indice Gini quotava 0,59 e la quota di ricchezza posseduta dal 10% delle famiglie più ricche era intorno al 40%. Il cambiamento, che si è annunciato come culturale, si è declinato con l’economia è ha finito col diventare sociale, si è consumato fra il 1991 e il 1993.  Sono gli anni delle grandi privatizzazioni, delle superfinanziarie, della crisi valutaria.

A fine ’93 L’indice di Gini è schizzato a 0,63 e il 10% delle famiglie più ricche deteneva già 45% della ricchezza totale. Un aumento impressionante di nuovi ricchi. Dall’età dell’oro del ceto medio all’età Loro (i ricchi).

Per converso la quota di ricchezza detenuta dal 50% delle famiglie meno abbienti crolla da poco più dell’11% del ’91  a poco sopra l’8%. Si crea spazio per la categoria dei nuovi poveri che inizia a fagocitare il ceto medio.

In pratica fra il 1993 e oggi non è cambiato niente, né a livello di concentrazione della ricchezza, né al livello della quota destinata al 10% più ricco. Questo è il nostro ventennio perduto.

O meglio qualcosa è successo. La ricchezza totale è cresciuta costantemente, e con essa i debiti delle famiglie. E la variabile  indipendente della ricchezza, il driver direbbero gli economisti, è stato il mattone. I guadagni degli investimenti finanziari infatti, scrive ancora la Banca d’Italia, sono stati positivi fino al 2000 e negativi per il decennio successivo. Ciò, malgrado la cospicua quota di ricchezza che le famiglie hanno girato negli anni a banche, assicurazioni, fondi e quant’altro. Basti pensare che fino alla seconda metà degli anni ’90 le famiglie investivano in titoli pubblici il 14% della loro ricchezza finanziaria. Nel 2011 tale quota era crollata al 5,2%.

Al contrario il mattone è andato a gonfie vele dal 2000 fino al 2008. E quindi entra in gioco l’euro. Nel ’97 (valori correnti 2011) la ricchezza immobiliare era valutata in circa 3.000 miliardi. Nel 2002, quindi dopo l’ingresso dell’euro che fa impennare i valori immobiliari, è già schizzata quasi a quota 4.000 e da lì sale progressivamente fino a sfiorare i 6.000 miliardi circa del 2011. Fatta 100 la ricchezza immobiliare del 1995, a fine 2011 tale indice è schizzato a 220. La famosa bolla che non c’è ma che si vede.

A tale arricchimento immobiliare ha corrisposto il triplicarsi dell’indebitamento medio delle famiglie che nel ’95 era di poco superiore al 20% del reddito e nel 2010 sfiorava quotava il 71%. In pratica le famiglie si sono pagate, indebitandosi, l’aumento dei corsi immobiliari. Un affare per chi ha grandi patrimoni immobiliari, che ha lucrato dell’aumento dei corsi, ma non certo per i piccoli proprietari. Ne ha fatto le spese il risparmio netto, crollato da circa il 3% della ricchezza netta del ’96 a meno dell’1% nel 2011, complice anche una crescita insoddisfacente del reddito da lavoro.

Ci fermiamo qui perché crediamo sia necessario digerire tutte queste cifre, rimandando a un altro post il confronto internazionale fra l’andamento della ricchezza italiana e quella di altri paesi.

Per il momento si può trarre una conclusione. Nel 1991 eravamo un paese in cui le famiglie erano poco indebitate, mediamente benestanti (l’accesso al mercato immobiliare era molto più facile di adesso) e la distribuzione della ricchezza era più equa.

Oggi non più.

Dall’età dell’oro all’età Loro (passando per l’euro)

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