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Da una parte, c’è la vicenda mediatica. Qui è evidente come Romney sia riuscito a recuperare terreno anche e soprattutto a causa della campagna di Barack Obama, incentrata sul “character assassination”, sulla rappresentazione di uno sfidante caricato di tratti ultraconservatori che non corrispondono alla realtà. Questo scollamento tra immagine e realtà può essere il frutto, come sosteneva qualche tempo fa Matt Bai del New York Times, di un’azione dalle retrovie di Bill Clinton, che avrebbe promosso negli ultimi mesi la recrudescenza della campagna contro il “nemico immaginario”.
 
Se è così, si è trattato di una polpetta avvelenata perché, come nota Kyle Smith sul New York Post, il menù a base di spot negativi (alcuni dei quali francamente assurdi, ma di grande impatto emotivo) sapeva di livore, sarcasmo e fango. Nulla, insomma, che possa scaldare il cuore come i grandi appelli del 2008 a rifare su nuove basi il contratto sociale. Al confronto, il repubblicano è parso più in grado di interpretare l’ottimismo trasformativo che è parte integrante del carattere nazionale. Se non riuscirà, come sembra, a strappare la Casa Bianca a Obama, è perché questa sua fisionomia è emersa troppo tardi nella corsa. È la tesi di Larry Sabato, il quale, dopo aver seguito dal 3 ottobre in poi l’ascesa dello sfidante, ufficialmente chiude la campagna presidenziale con la previsione di 290 voti a favore di Obama contro i 248 di Romney.
 
Gli ineluttabili compromessi politici
Ma c’è un grosso “ma”, ed è questo il secondo tema cui sarà posta di fronte l’America domani. L’inquilino della Casa Bianca sarà l’unico presidente a non ottenere, nella rielezione, Stati addizionali rispetto a quelli della sua prima volta: non è riuscito a prendere importanti Stati nella Sun Belt e nel Midwest. In pratica, non è riuscito ad allargare la coalizione democratica imperniata su New England, Grandi Laghi e Costa ovest. In termini geografici è una debolezza strategica perché vuol dire che dovrà effettuare compromessi politici per presidiare quella che è una direttrice imprescindibile degli interessi americani, il Golfo del Messico e l’America latina.
 
Coalizione centripeta
Il terzo aspetto è il carattere centripeto della competizione. Chiunque vincerà, sostiene Thomas Friedman sull’International herald tribune, sarà allineato con gli interessi di una coalizione (“di centro-destra” o di “centro-sinistra”) che rispecchia gli interessi fondamentali della nazione, interessi che verranno incanalati dunque attraverso grandi “accordi di compromesso”: sulla riforma del budget per ridurre spese militari e trasferimenti, aumentare gli investimenti in istruzione ed infrastrutture, e migliorare il sistema fiscale per le imprese; sull’immigrazione; sullo sfruttamento delle risorse energetiche di gas e petrolio non convenzionale difendendo al tempo stesso l’ambiente.
 
La valutazione di Friedman è che questi compromessi costino tanto ai Repubblicani quanto ai Democratici, ma nel primo caso si tratta di un confronto interno più evidente, a causa della forza mediatica del radicale e ultralibertario Tea Party. Per questo, conclude l’economista, la cosa migliore per il Paese sarebbe una seconda sconfitta dei Repubblicani, che sarebbero così costretti a tagliare decisamente i ponti con una base radicale che li ha spinti in guerra “contro la matematica, la fisica, la biologia, gli ispanici, i gay e le lesbiche – tutti in una sola volta”. Insomma, finché questa base è forte – e una vittoria presidenziale non la renderebbe certo meno innocua – sono sempre possibili accordi “contro gli interessi nazionali di lungo periodo” sulla legislazione della Corte suprema, sull’ambiente e sulla politica estera.

Obama o Romney? Vincerà comunque il Centro

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@claudiocerasa

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