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“La giovinezza è l´unica cosa che meriti di essere posseduta”. A sostenerlo era il caustico Lord Wotton, pedagogo un po’ superficiale del giovane Dorian Gray nel celebre capolavoro di Oscar Wilde.
 
Accade tuttavia che persino nella gerontocratica Penisola, da sempre scettica verso la cessione di responsabilità (e potere) a uomini non ancora canuti, ci sia qualcuno che quelle parole deve averle prese dannatamente sul serio.
 
Il riferimento, abbastanza facile, è all’ex premier Silvio Berlusconi, eterno “debuttante” della politica italiana, in sempiterna lotta contro la “vecchia casta partitocratica” che desidererebbe tanto spazzare via con una grande rivoluzione liberale, più volte annunciata e – come noto – mai compiuta.
 
Ma procediamo con ordine. Da mesi ci si interroga sulla strategia che il Cavaliere intenderà approntare in vista dell’ennesima campagna elettorale della sua vita, lontana anni luce (politicamente parlando) dalla sua prima discesa in campo, datata ormai 1994.
 
Sebbene la leadership di Berlusconi sia piuttosto logora a causa di un profondo immobilismo politico e di scandali più o meno marcati, il tycoon delle telecomunicazioni rimane l’unico nome davvero aggregante e spendibile nel centrodestra, al riparo persino dalle critiche a grappolo dei giovani “formattatori”.
 
Sono invece bastati pochi pettegolezzi che vedevano Angelino Alfano e Daniela Santanchè come possibili candidati per scatenare guerre intestine e minacce di fuga in altri partiti, sottolineandone ancora una volta di più, semmai ce ne fosse stato bisogno, l’assoluta indispensabilità.
 
Lo stesso dicasi per il suo rapporto con l’elettorato moderato: nonostante sondaggi poco lusinghieri che nel migliore dei casi attestano il Pdl al 20% delle preferenze (non più di tre anni fa superava abbondantemente il 30%), il Cavaliere rimane l’unico vero politico italiano dotato di quella scintilla che gli americani chiamano “common touch”, cioè la capacità da parte di una persona ricca o importante di comunicare sulla stessa lunghezza d’onda del cittadino comune.
 
L’unico sino ad ora. Già, perché le lodi sperticate che esponenti del Pdl stanno unanimemente rivolgendo a Matteo Renzi segnalano una paura vera: quella che il Cavaliere si ritrovi a competere con un candidato con la metà dei suoi anni e al quale risulterebbe impossibile dare del “comunista”, come rimarcato da un suo vecchio conoscitore, Enrico Mentana.
 
Il cosiddetto “bacio della morte” che Berlusconi ha dato a Matteo Renzi ha come preciso obiettivo non quello di portare elettori moderati alle primarie del centrosinistra, come sostenuto da molti, ma di annientare la carica del Sindaco di Firenze agli occhi degli stessi elettori del Pd.
 
Pierluigi Bersani sarebbe invece per l’ex premier un candidato semplice da “gestire”, più facilmente attaccabile e soprattutto parte di una classe dirigente che non può dirsi al riparo da responsabilità storiche e politiche sull’attuale crisi economica e sociale che attraversa il Belpaese.
 
Renzi rappresenta un compromesso pragmatico per chi – come molti italiani – ha voglia di rinnovamento, ma non se la sentirebbe mai di dare il proprio voto ai populisti grillini.
 
Questo Berlusconi lo sa bene e nonostante agli occhi dell’opinione pubblica stia consumando un vero e proprio endorsement nei confronti di Renzi, in realtà incrocia le dita perché il segretario dei Democratici vinca le consultazioni interne con uno scarto rassicurante.

Perché Berlusconi aspetta le primarie (e tifa per Bersani)

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