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L’Italia ha un problema storico o, secondo altri, una virtù. L’Italia fa eccezione. Noi non siamo fatti per essere come “gli altri”. Abbiamo la nostra felice anomalia. Tra i corollari dell’“eccezionalismo”, c’è l’inversione del rapporto tra regola ed eccezione: in un contesto eccezionale la regola diviene eccezione e l’eccezione regola. Questa inversione ha attecchito ai massimi livelli dell’organizzazione dello Stato. Tanto che oggi le decisioni pubbliche più importanti sono ormai “normalmente” affidate a strumenti eccezionali (decreti legge, ordinanze di protezione civile, ordinanze contingibili e urgenti dei sindaci, ecc.). E gli strumenti ordinari di governo (l’antica e gloriosa “legge”) sono ormai diventati una marginale “eccezione”. In questo pirandelliano scambio delle parti anche parlare del “dopo-Monti” diventa un esercizio complicato. Se ci trovassimo infatti “altrove”, questa sarebbe sì una fase “eccezionale” (più o meno lunga) ma il “dopo” sarebbe collocato nell’orizzonte del ritorno alla “normalità”.
 
Siccome stiamo in Italia, il discorso non è così semplice. Vediamo perché. Innanzitutto l’Italia non ha mai avuto “normalità”. O, meglio, le vicende politiche nazionali non sono mai state interpretate e raccontate secondo la lente della normalità. Persino la Costituzione, soprattutto nella II parte, è stata approvata con la consapevolezza di una situazione storica eccezionale. E le scelte ivi compiute sono state ispirate al “principio di precauzione”, di cui però oggi, a distanza di sessant’anni e in tutt’altro contesto, paghiamo costose conseguenze. Dopo la Costituzione, l’ombra lunga della Guerra fredda ha bloccato la nostra democrazia, impedendo quel fisiologico ricambio che, con il Pci che avevamo, sarebbe stato impossibile. Così, la Prima repubblica si è svolta all’insegna dell’eccezionalità, in attesa che si creassero le condizioni per emulare quanto altrove accadeva ormai da tempo.
 
Ai primi degli anni Novanta sembrava giunto il momento per la normalità. Caduto il Muro di Berlino si apriva la strada alla democrazia “compiuta”. Sarebbe bastato che il Pci si “socialdemocratizzasse” effettivamente e la Dc abbandonasse la collocazione centrista, trasformandosi in un partito moderato-conservatore, secondo la tradizione dei partiti popolari in tutt’Europa. Il Pci in realtà non si trasformò abbastanza: non accettò di rischiare una linea riformistica liberata dai ricatti alla propria sinistra. Si confermava l’osservazione di Sturzo del 1951, secondo cui “il principale, ma non l’unico torto dei partiti di minoranza è che non hanno la pazienza dell’attesa, perché non hanno fede nei propri ideali e non vogliono perdere i vantaggi del momento” e “aspirano a partecipare a tutte le coalizioni governative per trarne vantaggi di partito o di persone”. La classe dirigente democristiana, dal canto suo, non si rivelò preparata a una ricollocazione secondo il modello, ad esempio, della Cdu-Csu tedesca. La cultura politica del ceto direttivo di quel partito era troppo radicata sullo schema consociativo, del quale la Dc costituiva il perno essenziale.
 
L’assenza di uno sviluppo del tipo descritto impedì che attecchisse il bipolarismo fisiologico e civile che altrove esisteva da decenni. Quel modello cui il democristiano Adenauer aveva dato vita in Germania subito dopo la guerra, secondo cui “bisognava abituare il popolo tedesco all’idea che il partito più forte doveva assumere la guida del Paese, lasciando all’altro grande partito il compito di una opposizione responsabile e compatibile con l’interesse di tutto lo Stato. Se il partito-guida non avesse avuto successo, gli elettori gli avrebbero dato atto del suo fallimento nelle ulteriori elezioni. Se il partito all’opposizione si fosse mostrato all’altezza del suo compito, esso avrebbe avuto la prospettiva di conquistare il potere in occasione di una consultazione popolare. Questa è la democrazia parlamentare”.
 
Lo stesso “bipolarismo” al quale i leader più lungimiranti della Dc non avevano smesso di pensare: dal De Gasperi del discorso di Predazzo, allo Sturzo della svolta maggioritaria e delle riflessioni sulla “democrazia dell’alternanza” (per tutti si veda l’articolo “Maggioranza e opposizione” sul Mondo del 21 marzo 1951); fino ad arrivare all’ultima intervista di Aldo Moro su la Repubblica, nella quale il leader democristiano, nel 1978 – pur nel momento in cui stava propiziando come soluzione transitoria quella che oggi chiameremmo un specie di grosse koalition con il Pci – consegnava a Eugenio Scalfari le seguenti parole: “La società consociativa non è un modello accettabile per un Paese come il nostro. (…) La società consociativa può essere considerata un avanzamento verso la libertà e verso la partecipazione in altri Paesi, con una storia diversa dalla nostra e da quella dell’Europa occidentale. Per noi sarebbe un arretramento. Dopo la fase dell’emergenza si aprirà finalmente quella dell’alternanza”.
 
La democrazia dell’alternanza realizzatasi negli anni ‘90, fu invece subìta e non propiziata dal ceto politico. Si impose a causa di spinte esterne: i referendum elettorali, la discesa in campo di Berlusconi, Mani pulite. Vissuta come un corpo estraneo fu, da subito, narrata come l’ennesima eccezione. Eccezione a causa della presenza di Berlusconi, eccezione a causa della virulenza del conflitto politico, eccezione perché non accompagnata dalle riforme istituzionali e del sistema dei partiti che avrebbero dovuto rendere fisiologica e “condivisa” la competizione bipolare.
E arriviamo all’oggi, nel quale, non a caso, abbiamo ancora una volta una situazione “d’eccezione”.
 
Per questo è molto difficile prevedere cosa succederà dopo Monti. Perché a ben guardare la normalità non l’abbiamo mai vissuta, o meglio, la nostra normalità è stata sempre una qualche eccezione ed emergenza. Non sorprende dunque che, con l’eccezione del capo dello Stato, nessuno abbia parlato del momento in cui si dovrà finalmente approdare alla “normalità” di un’alternanza fisiologica e civile. Adesso siamo concentrati sull’eccezione. E forse l’oggi è veramente eccezionale. Magari lo sarà anche domani. Ma, qualunque cosa accada, non dobbiamo dimenticarci che, per l’Italia, il problema non è vivere l’eccezione, ma essere normali.

Tra Adenauer e Pirandello, alla ricerca della normalità

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