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Nel corso del 2011 si è parlato spesso di Primavera araba e “inverno persiano”. Una metafora ormai abusata, ma che ben illustra le rigidità di un regime sempre più repressivo al proprio interno e sempre più isolato a livello regionale e internazionale. I mutamenti avvenuti nel mondo arabo hanno evidenziato ancor più l’immobilismo iraniano; nonostante che alcune frettolose analisi avessero indicato proprio nell’Iran il massimo beneficiario delle rivolte, nel corso dell’anno si è assistito all’indebolimento della tradizionale capacità della Repubblica Islamica di sfruttare il suo soft power regionale.
 
Dai gruppi conservatori al potere Le rivolte arabe sono state giudicate, almeno nei primi mesi del 2011, come un ulteriore elemento a favore del ruolo regionale della Repubblica Islamica. In particolare, Khamenei ha considerato i mutamenti politici regionali come un «risveglio islamico», a riprova che il proprio dogmatismo anti-occidentale in politica estera, lungi dall’essere solo un residuo dei tempi della rivoluzione, fosse ancora un’architrave del discorso politico mediorientale. Analisi frettolose vedevano anzi possibili nuovi vantaggi geopolitici da queste rivolte, in particolare da quelle nell’area del Golfo, ossia in Bahrein (ove la maggioranza della popolazione è sciita) e nello Yemen. Addirittura il presidente Ahmadinejad si è spinto a dire che «si era nel mezzo di una rivoluzione mondiale», facilitata dal dodicesimo imam .
 
In altre parole, si temeva che il crollo di regimi filo-occidentali come quello di Ben ‘Ali e Mubarak e la crisi di quello yemenita accentuassero la crescita di influenza geopolitica dell’Iran. Crescita che, come è noto, ha attraversato tutto il primo decennio del nuovo millennio, anche grazie alla catastrofica politica mediorientale seguita dall’ex presidente statunitense, George W. Bush e alla rimozione di due nemici storici quali Saddam Hussein in Iraq e i talibani in Afghanistan.
 
Questo tipo di analisi, diffusasi tanto in Occidente quanto in Iran, presentava tuttavia chiari limiti strutturali, come gli eventi dei mesi successivi non hanno tardato a far rilevare. Innanzitutto, ci si poneva dinanzi alle conseguenze regionali della «primavera araba» con una vecchia logica bipolare, imperniata sulla «zero-sum theory».
 
La fine di regimi filo-occidentali doveva, in quest’ottica, necessariamente favorire la principale potenza antagonista dell’Occidente, ossia l’Iran. In realtà, l’analisi binaria è – in questa regione – assolutamente controproducente: i nuovi regimi, per quanto possano essere maggiormente influenzati dalle forze islamiste, non sono per questo più vicini all’Iran. Anzi, Teheran aveva in questi ultimi due decenni beneficiato proprio della decadenza e scarsa credibilità di molti regimi arabi – e dell’Egitto prima di tutto – per espandere il proprio soft power nel Medio Oriente arabo, imponendosi come il principale sostenitore dei movimenti arabo-palestinesi (sia sunniti che sciiti) radicalmente opposti a Israele (Hamas ed Hezbollah) e beneficiando delle incertezze arabe nei rapporti con il nuovo Iraq post Saddam Hussein.
 
Il consolidamento di nuovi governi meno impopolari o meno screditati può, in prospettiva, nuocere al ruolo geopolitico iraniano; in particolare, se l’Egitto saprà attuare una transizione controllata, è probabile che possa riproporsi come una voce maggiormente autorevole a livello regionale, soprattutto se agirà di conserva con l’Arabia Saudita in funzione anti-iraniana. Infatti, se anche «l’opinione pubblica egiziana e araba in generale condivide con l’Iran l’insofferenza per la situazione in cui versa il conflitto israelo-palestinese, non vi sono prove alcune che questo si traduca in simpatia verso l’Iran e verso il suo atteggiamento in seno alla comunità»].
 
Con il passare dei mesi, il vantaggio geostrategico per Teheran derivante dal mutato quadro politico in Medio Oriente è così divenuto meno evidente. In particolare, tre fattori hanno contribuito a indebolire il ruolo regionale iraniano. Il primo è rappresentato dalla dura repressione delle proteste anti-governative in Bahrein nei primi mesi dell’anno. Per timore che la maggioranza sciita prendesse il potere nel piccolo emirato, il 15 marzo le forze armate saudite sono intervenute direttamente – su richiesta della case reale del Bahrein – contribuendo alla dura repressione delle proteste Il secondo elemento negativo è ovviamente la crisi interna della Siria: da mesi, nonostante la sanguinosa brutale repressione da parte del regime di Assad, quel paese è lungi da essere stabilizzato.
 
Le migliaia di civili uccisi dalle forze armate hanno isolato ulteriormente Damasco, rendendo sempre più imbarazzante per Teheran continuare a sostenere il regime ba‘thista, dato che si dimostra la strumentalità della retorica islamista: quello siriano è un regime laico e secolare che reprime un’opposizione marcatamente islamica. Ma l’Iran non ha alternative: la Siria è un alleato cruciale – uno dei pochi rimasti alla Repubblica islamica – e gioca un ruolo insostituibile per garantire il sostegno militare ed economico ai movimenti radicali anti-israeliani (Hamas ed Hezbollah). Dovesse cadere Assad, si tratterebbe di un colpo fortissimo al ruolo iraniano regionale.
 
La mossa del presidente dell’autorità nazionale palestinese (Anp), Abu Mazen, di ricorrere alle Nazioni Unite per ottenere il riconoscimento dello stato di Palestina – per quanto sia stata una mossa dagli esiti molto incerti – ha rilanciato il ruolo dei palestinesi moderati. Nemici dichiarati di Teheran, dato che la Repubblica Islamica rifiuta il riconoscimento di Israele («un’aporia storica che sarà cancellata dalla storia», come ha spesso sostenuto Ahmadinejad), stanno cercando di recuperare il consenso interno che era stato eroso da Hamas. E anche il nuovo attivismo del primo ministro turco Erdogan nel mondo arabo per rilanciare il processo di pace toglie ulteriore spazio d’azione all’Iran.
 
Un altro elemento che gioca negativamente è, infine, il programma nucleare iraniano che, da quasi dieci anni, rappresenta uno dei problemi di sicurezza più spinosi per la comunità internazionale. Per la maggior parte degli studiosi, l’Iran è ormai una «potenza nucleare latente», nonostante che vi sia un forte disaccordo sui tempi necessari a completare le proprie ricerche: secondo le ipotesi più allarmistiche un paio di mesi, secondo quelle più equilibrate almeno due anni. Sono interessanti le reazioni dei paesi arabi, in particolare di quelli del Golfo. Lo scorso decennio, dinanzi alla crescita del potere geopolitico iraniano, essi hanno deciso di contrastare questa spinta alleandosi più strettamente con gli Stati Uniti e ammorbidendo ulteriormente il loro atteggiamento verso Israele. Corollari importanti di queste diffidenze sono il massiccio riarmo convenzionale e la decisione di adottare, in molti paesi del Golfo, misure di riforma, per quanto timide e limitate, così da ridurre l’impopolarità dei governi. Impopolarità che essi ritengono venga sfruttata da Teheran per rafforzarsi nella regione.
 
Riccardo Redaelli
Docente di geopolitica presso l´università del Sacro Cuore di Milano e autore di L´Iran contemporaneo

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