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Vista con occhi di un investitore straniero, l’Italia appare come uno strano e complicatissimo marchingegno. Abbiamo un sistema legale troppo complesso, un welfare di buona qualità ma a costo poco efficiente e livelli di tassazione molto alti che non incentivano certo la creazione di ricchezza. Eppure l’Italia riesce a compiere una serie di miracoli industriali, riuscendo ad essere molto competitiva sul fronte delle esportazioni. Non è da poco ad esempio che, nel secondo trimestre del 2011, l’export del nostro Paese, secondo l’Organizzazione mondiale del commercio, fosse il primo al mondo per tassi di crescita, rispetto al secondo trimestre 2010.
 
Infatti, i risultati più lusinghieri del sistema-Italia, che ci sono e dimostrano che il know how in Italia non manca, non possono nascondere la verità complessiva di un Paese che da vent’anni ha tassi di crescita molto bassi quando non negativi e che, secondo il Fondo monetario, nel periodo 2000-2010, era al 179simo posto su 180 Paesi censiti per tasso di crescita. Per accelerare il volano della crescita, c’è bisogno di aumentare gli investimenti finalizzati a produrre valore aggiunto. Va da sé che nel momento storico in cui viviamo, le risorse per gli investimenti non possono sicuramente arrivare dal settore pubblico.
 
Quando non si possono trovare risorse private cospicue fra gli investitori domestici, bisogna puntare su flussi di capitale dall’estero. In un mondo economicamente integrato, il capitale è mobile e cerca impieghi fruttiferi indipendentemente, saltando i confini nazionali. In Italia, però, non sono molti i capitali stranieri che arrivano. Occorre, da questo punto di vista, avere piena consapevolezza di quanto attrarre investimenti oggi sia una sfida non facile e alla quale dedicare la massima attenzione.
 
Dobbiamo imparare a “farci scegliere” dagli investitori internazionali. Dico “farci scegliere” perché, per quanto siano loro a scegliere, questo processo non è completamente sottratto al nostro controllo.
Gestire in modo strategico un territorio significa dare risposte alle domande che la concorrenza fra sistemi-Paesi ci obbliga a porci: perché un’impresa dovrebbe insediarsi da noi? Perché un’impresa già presente dovrebbe rimanervi? Perché un contribuente, una famiglia dovrebbe decidere di venire a contribuire qui? Perché un talento dovrebbe decidere di lavorare qui? Perché uno studente dovrebbe decidere di studiare qui?
 
Per quante più categorie di scelte possibili, noi dovremmo essere una delle prime scelte: dovremmo essere una calamita.
Le condizioni per le quali un Paese appare aperto agli investimenti diretti esteri e risulta attrattivo sono le stesse che favoriscono gli attori economici locali. Dobbiamo capire e far capire che un Paese che attrae risorse e competenze dal mondo è anche (e soprattutto) un Paese migliore per chi ci vive.
 
La presenza robusta di imprese a capitale straniero consente indirettamente l’ammodernamento della struttura produttiva nazionale e fa sì che le imprese locali dell’indotto possano essere inserite in una filiera internazionale più ampia. La sola forza dell’eccellenza delle piccole e medie imprese non è sufficiente ad entrare nei nuovi mercati globali. Non è sufficiente per una banale questione “di scala”. Il mondo è grande, e bisogna affrontarlo con le armi giuste.
Ecco perché le imprese a capitale estero possono diventare il traghetto per uscire dall’Italia, avvicinano il tessuto produttivo nazionale alle best practice internazionali e integrano le proprie imprese e fornitori locali nella supply chain globale.
 
Allora, come facciamo a “portare più mondo in Italia”, per citare il titolo di un recente convegno organizzato dal Comitato investitori esteri di Confindustria? Le aziende a capitale estero in Italia danno oggi lavoro a 1.400.000 persone e rappresentano un fatturato di 500 miliardi di euro. Sono valori impressionanti ma che restano esigui rispetto a quanto avviene in altri Paesi. Il freno principale all’incremento degli investimenti in Italia non sono (solamente) i tanti ostacoli normativi, la burocrazia e le infrastrutture carenti. Sia che si parli di mercato del lavoro, di giustizia o di fisco, la prima priorità del governo deve essere ridurre l’incertezza normativa. Rendere il marchingegno-Italia più semplice e lineare.
 
Quello che le imprese private non possono veramente affrontare, è l’imprevedibilità sistemica, l’impossibilità di trovare interlocutori definitivi. Il problema non è tanto la quantità delle norme o la faticosa burocrazia. Il vero tema è la chiarezza del percorso, la prevedibilità del risultato, che fanno sì che il solo fatto di investire in Italia porti con sé rischi che invece in altri Paesi non ci sono. Non possiamo continuare a confidare sull’eccellenza di alcune
realtà imprenditoriali italiane, e sulla qualità del nostro capitale umano, per compensare questi rischi sistemici. Non possiamo perché nulla come l’inerziale incapacità di risolvere i nostri problemi restituisce all’estero un’immagine deludente e preoccupante del nostro Paese. Serve un’Italia più prevedibile, come dice anche Mario Monti.
 
In sostanza, è chiaro dove siamo oggi nelle classifiche della competizione nel mondo, come è chiaro cosa occorre fare per staccarsi dal fondo di queste classifiche: dobbiamo fare un grande sforzo di alfabetizzazione emotiva e informativa dei cittadini di questo Paese e della sua Amministrazione pubblica per spiegare loro che il mondo non ci aspetta, che l’Italia è al centro del mondo solo nelle cartine che disegniamo noi. Non importa essere una leggenda nella propria mente, bisogna esserlo nella mente di chi deve sceglierci.
Non c’è oggi occasione migliore per obbligarci alle riforme: l’assenza di alternative.
 
Io sono convinto che abbiamo tutti i presupposti per tornare a vincere. Abbiamo tutte le capacità e gli strumenti per re-inventarci.
Basta prenderne coscienza e agire.

Noi e gli altri (di cui abbiamo bisogno)

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@paolomadron

Poi sul non #quid di #Alfano non è che Silvio avesse tutti i torti...

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