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La tappa di Durban nell’infinita serie di summit climatici si è conclusa, come era prevedibile, con la riconferma della salda convinzione delle Nazioni Unite che la più importante risposta al riscaldamento globale può venire solo da un forte accordo per tagliare le emissioni. Quello che si dimentica quasi sempre, tuttavia, è che se vogliamo risolvere i problemi quali sono nella realtà, dobbiamo in primo luogo concentrarci sull’adattamento.
 
L’accordo di Durban è stato acclamato come una vittoria diplomatica. Ma essenzialmente esso ammette la sconfitta, lasciando ogni decisione difficile all’ultima parte del decennio, quando altri politici dovranno affrontare il problema. Per quasi vent’anni, la comunità internazionale ha cercato di negoziare accordi vincolanti sulle emissioni, senza poter mostrare alcun risultato concreto. Anche i Paesi ricchi non vogliono ridurre i carburanti fossili, perché le alternative sono considerate più costose. Né lo vogliono certo Cina, India e le altre economie emergenti, perché per loro frenare la crescita vorrebbe dire consegnare milioni di persone alla povertà. Ma anche se, magicamente, si riuscissero a risolvere questioni così ardue, ogni accordo avrebbe un impatto trascurabile. Anche se nel 2050 si riuscisse a ridurre le emissioni del 50% rispetto ai livelli del 1990 – uno scenario estremamente irrealistico – ciò avrebbe, allo stesso anno, un impatto sulla temperatura inferiore a 0,2 gradi Fahrenheit. Ciò va contro tutto quello che i sostenitori delle campagne sulla riduzione delle emissioni vanno dicendo da anni.
 
Quando l’uragano Katrina o altri disastri meteorologici devastano le comunità, i militanti alla Al Gore ci raccontano che gli effetti del cambiamento climatico sono già evidenti e che è tempo di impegnarsi per una drastica riduzione del carbonio. Va sottolineato come questi argomenti siano spesso esagerati strumentalmente. Dall’uragano Katrina ad oggi, l’indice che misura l’energia accumulata dei cicloni è sceso praticamente al livello più basso da quando esso è stato introdotto nei primi anni Settanta. Il riscaldamento globale probabilmente renderà gli uragani un po’ più violenti, ma anche lievemente meno frequenti: non è dunque chiaro quale sarà l’impatto complessivo.
 
Possiamo certamente dire però che se vogliamo aiutare New Orleans o altre aree a rischio, ridurre le emissioni non avrà praticamente alcun impatto per molti decenni. Ben altro impatto potrebbe avere, invece, un intervento per rafforzare le difese dagli uragani, con il rafforzamento degli argini e l’intervento sulle zone umide. A maggior ragione ciò si potrà dire per i Paesi del Terzo mondo. L’uragano Andrew che ha colpito la Florida è costato il 10% del Pil dello Stato, causando 41 vittime. Ma l’uragano Mitch, di potenza comparabile, che ha colpito l’Honduras, è costato due terzi del Pil di quel Paese, causando oltre 10mila vittime. Se si vogliono combattere gli effetti degli uragani nei Paesi in via di sviluppo non si tratta di ridurre le emissioni di CO2, ma di sviluppare una strategia di adattamento e di crescita economica per aumentare la resilienza. Ciò vale sia che si guardi agli uragani sia che si considerino altre problematiche esasperate dal riscaldamento globale.
 
Si dice spesso, e a ragione, che il riscaldamento globale causerà maggiori danni ai Paesi in via di sviluppo. Aumenteranno, per esempio, i casi di malaria legati all’aumento della popolazione di insetti che la trasmettono, e la produzione agricola alimentare diminuirà in molti di questi Paesi. Raggiungere un accordo sulle emissioni, in uno qualunque dei prossimi incontri tipo Durban, non aiuterà in alcun modo a superare i problemi citati. Anche se dovessimo fermare il riscaldamento globale per la fine del secolo, si prevede che riusciremo ad evitare solo il 3% circa dei casi di malaria nel mondo entro il 2100. Ciò di cui le moltitudini affette da malaria hanno bisogno oggi è l’accesso alle cure e una migliore prevenzione con zanzariere e spray per interni. Questo è l’adattamento.
 
Passiamo all’accesso alle risorse alimentari. Nel corso di questo secolo il riscaldamento globale sarà responsabile, secondo le proiezioni, di una riduzione del 7% dei rendimenti della terra nelle aree emergenti e di un incremento del 3% nel mondo sviluppato. Tutto ciò va visto però nel contesto più ampio di una produzione alimentare complessiva dei Paesi in via di sviluppo che aumenterà di circa il 270% nello stesso periodo. Aiuteremmo meglio il mondo meno sviluppato con una drastica riduzione delle emissioni oggi – il che nella migliore delle ipotesi eviterebbe la riduzione del 7% dei rendimenti agricoli – o rendendo disponibili varietà agricole a più alto rendimento, che potrebbero generare drastici aumenti complessivi della rendita delle terre? Sono domande cui dobbiamo dare una risposta se vogliamo realizzare l’adattamento alla realtà del riscaldamento globale in questo secolo.
 
Il primo passo verso l’adattamento è la sua misurazione. Il Global adaptation institute, guidato dall’ex direttore della Banca mondiale Juan Jose Daboub, pubblica il Global adaptation index, che mostra quanto i vari Paesi siano esposti al riscaldamento globale e in quale misura siano preparati a fronteggiarlo. La sfida è non soltanto ridurre la vulnerabilità, ma anche predisporre gli interventi strutturali affinché governi e investitori privati possano intraprendere il cammino dell’adattamento nel modo più efficace possibile. La buona notizia è che possiamo migliorare la vita di molte persone oggi, preparando le infrastrutture fondamentali e necessarie per domani.
 
Il clima continuerà a cambiare nel corso di tutto questo secolo. E certo, dobbiamo contenere le emissioni di CO2 in modo intelligente, attraverso l’innovazione tecnologica. Ma se la nostra preoccupazione è salvare vite umane e aiutare i popoli più esposti del pianeta, allora dobbiamo concentrarci in primo luogo sulla costruzione di comunità più resilienti e adattabili.
 
© Project Syndicate 2011. Traduzione di Marco Andrea Ciaccia

Ma tagliare le emissioni non basta

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