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Il rischio, quando si parla di giovani, è quello di considerarli come “una politica di settore”: le politiche giovanili, per l’appunto. Una nicchia a sé stante. La realtà non è questa. La verità è che la Repubblica da almeno 20 anni concede poco a pochi e chiede molto a molti. La conseguenza è che i nuovi italiani si trovano a fronteggiare una situazione nuova: quella di essere una generazione che, in termini di servizi, diritti, opportunità, non incontra, nella sua esperienza quotidiana, la Repubblica italiana. Ne è esclusa.
 
Cosa vuol dire per questi ragazzi essere cittadini? Spesso diciamo: la memoria condivisa, la patria, l’orgoglio della nazione. Bellissime parole, valori nei quali tutti ci riconosciamo. Ma in questi 65 anni di democrazia, i momenti di avanzamento nella costruzione della nazione italiana non sono mai stati scissi da un intervento sulle condizioni materiali di vita dei cittadini: un progressivo allargamento della cittadinanza.
Cosa era la riforma agraria di De Gasperi se non l’ingresso di masse fino allora marginali e sfruttate di contadini in un nuovo mondo di dignità, progresso e partecipazione democratica? Cosa è stata la politica della casa se non un simbolo materiale di riscatto, lo strumento per la costruzione di un nuovo ceto medio? Cosa è stato il movimento del lavoro? O la battaglia per la libertà delle donne e il nuovo diritto di famiglia, che vide unite, su fronti opposti, esponenti politiche come Tina Anselmi e Giglia Tedesco?
 
Ora questo ciclo si è interrotto. Quel modello che, negli anni della ricostruzione post-bellica e del boom economico, ha permesso alfabetizzazione di massa, diffusione della ricchezza, dignità del lavoro, tutela previdenziale, diritti individuali e collettivi, oggi non offre più risposte.
Viviamo in quella che è stata chiamata la società del rischio. Sì, ma la società del rischio diseguale. Dentro la crisi c’è chi paga di più, chi paga di meno, e chi non ha pagato niente. In Italia chi paga di più sono i giovani: un’ipoteca che grava sul nostro futuro. Tra il 2008 e il 2010 l’occupazione in Italia è calata del 2,2%, ma tra i 15 e i 29 anni la riduzione è stata del 13,2%, nettamente superiore alla Francia (-2,7%) e alla Germania (-3,1%). Solo il 35% dei giovani tra i 15 e i 29 anni ha un’occupazione.
 
Il più grande pericolo, come si sente ripetere spesso, è che la cosiddetta Net generation finisca per diventare la “Neet generation” (not in employment, education or training): già oggi il 21% dei giovani italiani non fa niente. Una condizione che ha conseguenze drammatiche sulle prospettive esistenziali: per citare ancora un dato, fra il 2009 e oggi l’età media in cui una ragazza italiana partorisce il suo primo figlio è salita da 26,9 a 30 anni.
Per questo, non esiste una “questione giovanile” sganciata dalla “questione Italia”. Parlare dei problemi dei giovani significa parlare dei problemi del Paese. Offrire una interlocuzione non retorica alle istanze e ai bisogni di una nuova generazione significa affrontare tre temi cruciali, troppo spesso elusi o rinviati dall’agenda della politica italiana: la formazione per offrire a tutti pari chances di farcela e di avere successo, l’innovazione, per cogliere nuove opportunità di crescita come quelle offerte dalle tecnologie e l’equità, per combattere le crescenti diseguaglianze di reddito e ricchezza e superare i limiti di un modello sociale duale che non offre più garanzie.
 
Per farlo occorre, innanzitutto, cambiare, togliersi paraocchi, metterci, se serve, anche un pizzico di fantasia. Una cosa che le istituzioni e la politica italiana non sempre (o a dire il vero molto poco) riescono a fare.
Nonostante gli enormi cambiamenti che la rivoluzione tecnologica ha portato nelle nostre vite quotidiane, il sistema dell’istruzione italiano è rimasto sostanzialmente immutato. Né la scuola secondaria, né l’università – con qualche piccola lodevole eccezione – sembrano essersi accorte dei mutamenti nelle conoscenze necessarie ad accedere al mercato del lavoro.
 
È necessario, ad esempio, introdurre nei curricula insegnamenti che permettano ai giovani di acquisire le competenze necessarie a sfruttare la rete per creare posti di lavoro e sviluppo. È necessario sistematizzare conoscenze, creare modelli formativi e divulgarli. Bisogna promuovere insegnamenti specifici nelle università, corsi di formazione degli enti locali e una più generale informazione sul tema. I nostri giovani devono poter imparare come utilizzare il web e i social network per promuovere e commercializzare i nostri prodotti in tutto il mondo.
 
È un tema che, nella vulgata pubblica italiana, può sembrare marginale. Ma non è così, e riguarda da vicino anche la crescita. Ho di recente visto su youtube un video che raccontava la storia di tre ragazzi che vivono in un piccolo Comune della costa adriatica. Hanno aperto un negozio di cartucce per stampanti e – nonostante vivano in un centro di soli 5mila abitanti – riescono ad essere fra i leader in Italia nel settore. La chiave del loro successo è stata la possibilità di pubblicizzarsi su Internet e di vendere i loro prodotti on-line. Una frase mi sembra particolarmente eloquente, uno di loro racconta l’importanza del web dicendo che è come se prima avessero un negozio in una campagna sperduta e con la pubblicità on-line si fossero trasferiti in un istante al centro di una grande città.
 
La loro storia è emblematica delle enormi potenzialità che Internet mette a disposizione dei nostri giovani. E delle enormi potenzialità che il web ha per un Paese come il nostro che ha la seconda manifattura d’Europa. La vendita di prodotti on-line ha possibilità di sviluppo grandissime con la crescita del ceto medio nei Paesi Bric.
Spesso viviamo la globalizzazione come un pericolo, e non ne vediamo invece i lati positivi, le potenzialità. Da questo punto di vista i cosiddetti millennials, la generazione dei nati tra gli anni Ottanta e la fine degli anni Novanta, è già una generazione pienamente “globale”, immersa dentro una situazione complessa, un panorama di cambiamenti che pone nuove sfide e allo stesso tempo offre opportunità inedite di crescita, nuove energie. Aiutarli a liberare queste energie significa aiutare l’Italia a crescere.

La società del rischio diseguale

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