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È senza dubbio imbarazzante. Nel rapporto sulle “Scelte di Politica estera dell’Italia” (datato – è vero – 2009, ma con un orizzonte al 2020) si sosteneva che la cooperazione allo sviluppo è una delle priorità principali dell’azione internazionale della nazione. Siamo anche uno dei pochi Paesi industrializzati ad economia di mercato che ha un ministro incaricato della cooperazione internazionale.
 
Eppure, nelle classifiche del Comitato di aiuto allo sviluppo dell’Ocse, siamo il fanalino di coda con un aiuto ufficiale allo sviluppo inferiore allo 0,15% del Pil (rispetto all’obiettivo Onu di portarlo, e tenerlo, a livelli superiori allo 0,7% del Pil), inferiore pure allo sforzo di quella Grecia da tempo sull’orlo dell’insolvenza. Oltre che imbarazzante è pericoloso: come possiamo essere i capofila di un gruppo di Stati (ed avere, quindi, un seggio) al Fondo monetario internazionale, alla Banca mondiale e alle altre Banche regionali di sviluppo? Nelle stesse Nazioni unite, e relative agenzie specializzate, siamo trattati come chi fa promesse da marinaio.
 
Quando il programma italiano di cooperazione allo sviluppo prese consistenza – ossia all’inizio degli anni Ottanta – eravamo privi di esperienza. E vennero commessi errori sia nella cooperazione bilaterale sia nei cosiddetti “contributi volontari” alle agenzie multilaterali. Senza entrare nelle vicende che hanno portato la procura della Repubblica a entrare negli uffici della direzione generale pertinente, basti pensare a progetti bilaterali dai costi stratosferici e benefici poco consistenti, alla mancanza di procedure e metodi di valutazione, al non avere creato un ruolo tecnico specialistico.
 
Tra i “contributi volontari” basti pensare al Centro di formazione internazionale di Torino di cui l’Italia è rimasta quasi l’unico finanziatore perché ha per anni sfoggiato i costi unitari più alti al mondo e programmi grotteschi (quali la formazione in riva al Po di donne vietnamite in artigianato del sudest asiatico). Indubbiamente c’è molto da migliorare nel bilaterale, dove i “contributi volontari” hanno portato ad elefanti bianchi che non hanno attirato (dopo 60 anni, sic!) apporti finanziari da altri, meglio chiudere bottega al più presto – prima di ulteriori danni.
Ciò non vuole dire, però, che, nonostante le ristrettezze finanziarie, l’Italia non debba tornare ad essere se non protagonista almeno uno degli attori significativi della cooperazione internazionale allo sviluppo.
 
Come farlo? Per decenni, alcuni Stati (ad esempio quelli del nord Europa) hanno concentrato le risorse disponibili unicamente su poche aree e su pochissimi settori, creandosi un corpo specializzato tanto nelle zone quanto nei comparti specifici. Dato che, ai livelli a cui siamo arrivati, si tratta non di ripartire ma di iniziare di nuovo, occorre evitare la dispersione delle poche risorse in piccoli progetti a pioggia e in settori in cui abbiamo poca tradizione ed esperienza. Il gruppo nordico, ad esempio, opera quasi esclusivamente in alcune aree della vasta regione a sud del Sahara dove la “good governance” è praticata dai governi locali, e concentra le proprie azioni negli aiuti alla formazione e allo sviluppo rurale.
 
È molto parco nella concessione di “contributi volontari” ad agenzie internazionali perché tali somme vanno, in gran misura, a finanziare apparati burocratici. Sostiene invece le associazioni di volontariato che lavorano per migliorare le condizioni degli “ultimi tra gli ultimi”. L’Italia potrebbe concentrarsi nel Mediterraneo e contribuire, con formazione e enfasi sullo sviluppo agricolo, alla Primavera araba e alla lunga strada verso la pace nella regione.
Principi di buon senso come questi ci permetterebbero di toglierci la maglia nera della cooperazione. Anche se non di ricevere la maglia gialla.

Promesse da marinaio

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