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Il momento che il Paese sta attraversando presenta numerosi punti di contatto con quell’anno 1992 che segnò l’inizio della fine della Prima repubblica e la sua transizione politico-giudiziale verso la Seconda.
Le analogie ci sono anzitutto sul versante della tenuta dei conti pubblici. Come allora, ci troviamo in una situazione di estrema debolezza finanziaria accompagnata da una altrettanto significativa incertezza politica. La parola d’ordine è rigore ed è effettivamente una parola d’ordine ineludibile, arrivati a questo punto.
Nel fare i doverosi complimenti a chi oggi di questa politica del rigore è strenuo difensore, sarebbe però ipocrita non sottolineare che, se essa fosse stata seguita anche nel periodo 2001-2006, vivremmo oggi una situazione molto diversa e assai meno drammatica. Purtroppo non è stato così e anzi in quegli anni la spesa pubblica è stata lasciata crescere in modo davvero eccessivo, vanificando quel poco (troppo poco) di buono che era stato fatto fino al 2000, in periodi di congiuntura economica, anche internazionale, favorevoli.
 
Lungi dall’essere un inutile amarcord, quanto precede serve a far capire come l’odierna politica del rigore non è purtroppo figlia di una visione strategica.
Dopo l’11 settembre 2001 avrebbe potuto essere considerata tale e lo sarebbe in effetti stata. Oggi, invece, è solo la triste e ineluttabile conseguenza della consapevolezza di un Paese sull’orlo del baratro. Come nel 1992, appunto.
Per risalire la china, l’obiettivo del pareggio di bilancio è un mezzo imprescindibile, ma non può essere confuso addirittura con un fine. Qual è l’idea di Paese che, chi oggi lo guida e chi oggi si oppone, ha in mente sul medio periodo?
Vogliamo puntare ad essere il Paese dell’innovazione tecnologica? Del turismo? Della logistica? Delle energie rinnovabili? Del rilancio del manifatturiero?
Quali che saranno gli indirizzi strategici su cui decideremo di lavorare, è indubbio che, senza il pareggio di bilancio, la nostra finanza pubblica ci farà fare pochissima strada prima di esplodere definitivamente; ma, assodato questo, quali sono le idee di Paese in campo?
 
Meglio manovre shock da 80 miliardi con però un fine preciso di rilancio e ripartenza del Paese, piuttosto che manovre da 40 miliardi senza un fine e, di conseguenza, pure senza fine (nel senso di una dopo l’altra, per mantenere nel tempo un obiettivo di pareggio di bilancio che la bassa crescita economica non consente da sola di mantenere, anche una volta che lo si dovesse raggiungere).
Oltre che sul versante dei conti pubblici, le analogie con il 1992 ci sono anche sul fronte della questione morale.
Il quadro che emerge è infatti desolante sotto tutti i punti di vista ed è una desolazione che, sia chiaro, non investe soltanto la classe politica di questo Paese, ma in senso più ampio tutta la classe dirigente, ivi compresi quindi imprenditori, professionisti e cosiddetti servitori dello Stato che, tanto più quando ricoprono cariche dirigenziali, paiono assai più simili a piccoli padroncini di pezzi di quello Stato che dovrebbero invece servire.
 
In tutte queste categorie ci sono persone per bene e, nella maggioranza di esse, sono pure la componente assolutamente prevalente. Eppure non riescono a interagire: quelli che creano le interazioni, gestiscono i contatti, dispongono le nomine, sono gli altri.
Come tutti i sequel, anche questo “remake del 1992” pare peggiore dell’originale.
La situazione economica e finanziaria del Paese è più difficile, anche a causa di numeri sempre più abnormi in valori assoluti.
Il rilancio della centralità dell’etica nell’agire pubblico, come nella vita privata, è minato dalle diffidenze che derivano da vent’anni di una estenuante battaglia tra poteri dello Stato (con colpe da ambo le parti), per effetto della quale qualsiasi richiamo a valori di onestà e sobrietà, di per se stessi squisitamente trasversali alle coscienze di ciascun cittadino, viene paradossalmente letto come una scelta di posizionamento politico o come una invocazione meramente strumentale.
 
Da questo punto di vista, il riferimento al “partito degli onesti”, fatto da Angelino Alfano nel suo discorso di insediamento come nuovo segretario del principale partito di maggioranza, costituisce un passaggio politico molto rilevante e, a prescindere dal collocamento politico di ciascuno, accende la speranza che, se alle parole seguiranno i fatti concreti, un tema che è di tutti torni davvero ad essere per tutti. Solo in questo modo, insieme ad una visione strategica del futuro che si basi sul pareggio di bilancio senza però esaurirsi in esso, sarà possibile costruire quel Paese migliore che, in questi vent’anni, a tratti è sembrato esserci stato, ma sembra ormai essersi definitivamente perso per strada.

Una crisi che ricorda il 1992

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