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«Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di “cortile dei gentili” dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa. Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi soprattutto il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto». Queste parole di Benedetto XVI hanno prodotto un effetto anche concreto: un dicastero vaticano, il pontificio Consiglio della Cultura, ha dato il via a un’istituzione, denominata appunto “cortile dei gentili”, per aprire un dialogo serio e rispettoso tra credenti e agnostici o atei. L’evento inaugurale è avvenuto lo scorso marzo a Parigi in contemporanea in più sedi: alla Sorbona, all’Unesco, all’Académie Française e, per i giovani, nel piazzale di Notre-Dame, secondo prospettive diverse.
 
Vorremmo innanzitutto spiegare il simbolo usato dal papa, una locuzione non a tutti perspicua, anche se a molti è noto che il vocabolo “gentili” deriva dal latino gens nel senso di nazionalità straniera in opposizione al populus romanus. È risaputo quanto san Paolo si sia battuto per aprire a costoro le porte della nuova fede, senza costringerli a passare previamente attraverso la circoncisione e, quindi, l’ebraizzazione, come alcuni esponenti della comunità cristiana delle origini (i giudeo-cristiani) esigevano. Ma il “cortile dei gentili” quale realtà materiale evoca?
Dobbiamo a questo proposito riferirci alla planimetria del tempio di Gerusalemme, soprattutto nella tipologia offerta dall’imponente edificio voluto dal re Erode a partire dal 20 a.C. e distrutto nel 70 d.C. dalle armate romane di Tito. Là, infatti, oltre alle aree riservate alle donne, agli israeliti, ai sacerdoti e al santuario propriamente detto, si apriva uno spazio al quale potevano accedere appunto i pagani in visita a Gerusalemme. Era, questo, il “cortile dei gentili”. La prova concreta dell’esistenza di questo recinto speciale – largo 300 metri e lungo 475 – è in una lapide con un’iscrizione greca, scoperta nel 1871 e ora conservata al Museo archeologico di Istanbul. In essa si legge un divieto analogo alle segnalazioni attuali con l’avviso di “pericolo di morte” o di “zona militare” invalicabile: «Nessuno straniero penetri al di là della balaustra e della cinta che circonda l’area sacra. Chi venisse sorpreso (in flagrante) sarà causa a se stesso della morte che ne seguirà».
 
È curioso notare che, a quanto si evince dal dettato del divieto, la pena capitale era automatica, senza regolare processo ma con una sorta di linciaggio affidato alla folla ebraica. Qualcosa del genere è evocato in connessione col rischio corso da san Paolo proprio nel tempio di Gerusalemme: la massa dei fedeli tenta di ucciderlo perché sospettato di «aver introdotto greci nel tempio, profanando il luogo santo». Infatti, era stato visto poco prima in compagnia di un pagano, tale Trofimo di Efeso, attirando su di sé il sospetto di averlo condotto oltre il “cortile dei gentili”, nell’area sacra off limits per i pagani. Sarà, comunque, proprio l’apostolo a infliggere un duro colpo a questa concezione così aspramente “separatista” quando, scrivendo ai cristiani di Efeso, dichiarerà che Cristo è venuto ad «abbattere il muro di separazione che divideva» ebrei e gentili, «per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, riconciliando tutti e due in un solo corpo» (Efesini 2, 14-16).
 
Quel simbolo di apartheid e di separatezza sacrale che era il muro del “cortile dei gentili” è, quindi, cancellato da Cristo che desidera eliminare le barriere per un incontro nell’armonia tra i due popoli. È con questa ulteriore precisazione paolina che ha senso l’applicazione metaforica del “cortile” suggerita da Benedetto XVI. Credenti e non credenti stanno su territori differenti, ma non si devono rinserrare in un isolazionismo sacrale o laico, ignorandosi o peggio scagliandosi sberleffi o accuse, come vorrebbero i fondamentalisti di entrambi gli schieramenti. Certo, non si devono appiattire le differenze, liquidare le diverse concezioni, ignorare le discordanze. Ognuno ha i piedi piantati in un “cortile” separato, ma i pensieri e le parole, le opere e le scelte possono confrontarsi e persino incontrarsi, senza per questo rinunciare alla propria identità, senza scolorirsi in un vago sincretismo ideologico.
 
In questo incontro tra i due “cortili”, una scelta previa è quella della purificazione dei due concetti di base. Da un lato, i “gentili” devono ritrovare una propria concezione dell’essere e dell’esistere così com’era espressa dai grandi sistemi “ateistici” (pensiamo a un Marx o alla celebre parabola sul Dio morto della Gaia scienza di Nietzsche), prima che venissero incapsulati in sistemi politico-ideologici o piombassero nello scetticismo e nell’idolatria delle cose o degenerassero nell’ateismo sprezzante, sarcastico e infantilmente dissacratorio. Dall´altro, la fede deve ritrovare la sua grandezza, manifestata in secoli di pensiero alto e in una visione compiuta dell’uomo e del mondo, evitando le scorciatoie del devozionalismo o del fondamentalismo e rivelando che la teologia ha un suo rigoroso statuto metodologico parallelo e specifico rispetto a quello della scienza.
 
Ma oltre a questo, l’incrocio tra le voci diverse può avvenire attorno a temi comuni – anche se affrontati e risolti con esiti eterogenei – come l’etica, l’antropologia, la spiritualità, le domande “ultime” su vita e morte, bene e male, amore e dolore, verità e menzogna, pace e natura, trascendenza e immanenza. Per questa via si può giungere persino alla domanda sullo Sconosciuto, quell’Ágnostos Theós, il Dio ignoto, a cui faceva cenno san Paolo nel suo celebre discorso all’Areopago di Atene (Atti degli Apostoli 17, 22-31), e che era ricordato nel brano di Benedetto XVI citato in apertura.
Senza attesa di conversioni o di inversioni di cammini esistenziali, ma soprattutto evitando le diversioni nel vuoto, nella banalità, negli stereotipi, gentili e cristiani – i cui “cortili” sono contigui nella città moderna – possono scoprire consonanze e armonie pur nella loro difformità e possono far alzare lo sguardo a un’umanità spesso troppo curva solo sull’immediato, sulla superficialità, sull’insignificanza, verso l’Essere nella sua pienezza. Un po’ come suggeriva in uno dei suoi Canti ultimi padre David Maria Turoldo: «Fratello ateo, nobilmente pensoso,/ alla ricerca di un Dio/ che io non so darti,/ attraversiamo insieme il deserto./ Di deserto in deserto andiamo oltre/ la foresta delle fedi,/ liberi e nudi verso/ il Nudo Essere/ e là/ dove la parola muore/ abbia fine il nostro cammino»

Un luogo per contagiare la fede

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