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Il precariato e la fuga dei cervelli sono due patologie del mondo giovanile, apparentemente inguaribili nell’Italia di oggi. Il primo è legato al tempo e rappresenta la degenerazione del principio di flessibilità, l’altra allo spazio e deriva da un’interpretazione equivoca del principio di mobilità.
Precari non si nasce, si diventa, quando il tempo fisiologico della “prova” o della conferma in ruolo scade senza esito. Ugualmente si diventa “lavoratori in fuga”, quando la “patria per scelta” diventa “patria per obbligo” e il biglietto di ritorno sembra ormai inaccessibile.
 
Si tratta, è evidente, di fenomeni distinti per genesi e natura. Entrambi, tuttavia, colpiscono principalmente i giovani e dei giovani esprimono il sottile filo di sofferenza per la condizione presente e il crescente disagio nel progettare il futuro.
Esistono rimedi? I dati che l’Istat ha pubblicato non sono incoraggianti. L’Italia ha il triste record del 28,7% di giovani disoccupati (2,4% in più rispetto al novembre del 2009) nella fascia di età compresa fra i 15 e i 25 anni (per dirla senza veli: uno su tre è a spasso). Il dato nazionale medio di disoccupazione è pari all’8,7%, alto in assoluto, ma paragonabile (o addirittura inferiore) ai valori negativi dei grandi Paesi europei e degli Stati Uniti (9,8%).
Le economie più virtuose, riguardo al parametro “tasso di disoccupazione”, restano quelle di Olanda (4,4%) e Germania (6,7%), mentre la Francia (9,8%) ha superato, sia pur di poco, il livello di guardia (la media Ue è al 9,4%). La Spagna sta pagando a caro prezzo l’ascesa fulminea e sorprendente dell’ultimo decennio e nel corso del biennio 2008/2010, quando ormai sembra smaltita l’ebbrezza del settore edile e delle costruzioni, si è aggiudicata il drammatico primato europeo, con un 20,6% di disoccupati registrati nelle liste di collocamento.
La comparazione dei dati dimostra, pertanto, che nel nostro Paese il nervo scoperto è la disoccupazione giovanile.
Oltre al morso spietato della crisi economica, diffusa e globale, le spiegazioni di questo malessere interno vanno ricercate altrove, e direi che esse risiedano proprio qui, in casa nostra, nelle nostre specificità e in quelle anomalie ereditate dal passato, che continuano a generare anomalie per il futuro. Provo a indicarne alcune.
 
L’Italia è un Paese statico, sia in senso verticale (manca il ricambio generazionale, in tutti i settori), che orizzontale (cambiare sede e tipo di lavoro è inconsueto, difficile e rischioso). Ciò rende impari la comparazione con i modelli sociali più dinamici presenti in altri Paesi avanzati e pregiudica la competizione.
L’Italia ha indici di squilibrio massimi fra domanda e offerta, in senso quantitativo e qualitativo. In sintesi, scarseggiano gli infermieri e gli idraulici, ma anche certi specialisti del settore medico e ingegneristico, mentre si fa molta fatica ad assorbire, anche nel medio termine, le masse ingenti di laureati in discipline umanistiche e in scienze sociali.
L’Italia, infine, è un Paese ad alta e crescente densità di immigrati (è l’unico dei grandi Stati europei con un tasso di immigrazione superiore al 5%: quest’anno sono stati superati i 5 milioni ufficialmente censiti, di cui oltre il 10% di minori). La variabile immigrazione è, quindi, strutturale e non congiunturale. Di essa si dovrà tenere conto nel ripensare il mondo del lavoro nella sua complessità: potremo farne un giacimento di talenti (che va ad aggiungersi e ad integrarsi coi giacimenti autoctoni), oppure un deposito esplosivo di asimmetrie e scompensi sociali.
 
Sui tre livelli indicati sono possibili, quanto auspicabili, piani di intervento nazionali e regionali, che richiedono tempestività e risorse. In cambio, a garanzia degli investimenti fatti, si attendono risultati di medio e lungo termine, già sperimentati con successo altrove.
Parto dall’ultimo tema elencato, primo per dimensioni e urgenza politica: gli stranieri immigrati e la loro integrazione nel mondo del lavoro. L’area mediterranea (specialmente la Spagna e l’Italia) è, infatti, cresciuta del 15,5% netto in termini di flussi migratori in arrivo, nel corso del quinquennio 2005-2010, con una netta tendenza alla maggiore concentrazione nelle qualifiche professionali con bassa specializzazione.
La sfida del futuro, in questa parte d’Europa, si giocherà sul terreno dell’istruzione e della specializzazione professionale degli stranieri, in sintonia con la domanda del proprio mercato del lavoro. Germania e Paesi Bassi, Francia e Regno Unito (i Paesi europei con più antica immigrazione) hanno investito nella formazione professionale per cittadini indigeni e stranieri, riequilibrando il rapporto fra domanda interna e offerta. Ma questa mossa resterebbe tattica, e quindi di corto respiro, se ad essa non si accompagnasse una strategia di libera circolazione dei cervelli e di incentivazione dei percorsi di carriera per i giovani di talento.
 
Attrarre cervelli e favorirne la circolazione nel libero spazio euro-mediterraneo della conoscenza è, insomma, un obiettivo ineludibile nel prossimo futuro. Biglietti di andata e ritorno, in altri termini, da e per i Paesi emergenti e avanzati. Per tutti.
Gli strumenti esistono, non vanno inventati. Si tratta solo di applicarli con coraggiosa lungimiranza: il prestito d’onore, il contratto d’adozione da parte delle imprese, gli stage finanziati poiché finalizzati all’assunzione. Per fare alcuni esempi, semplici e concreti.
L’impegno è di tipo polifonico e coinvolge di necessità gli attori protagonisti del processo che porta un giovane dalla scuola al posto di lavoro: mondo dell’istruzione, di base e universitaria, mondo dell’impresa, mondo della politica.
A questi mondi spetta la responsabilità storica di ridefinire la semantica del lavoro di domani: flessibile e non precario, mobile e internazionale, ma non esule. Solo un Paese più dinamico, nel tempo, nello spazio e nell’architettura sociale consentirà il cambiamento e ne sarà il motore.

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