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Se c’era un leader che esprimeva e riassumeva la quintessenza della Dc, partito omnibus capace pure di conciliare gli opposti, il suo nome era Arnaldo Forlani. Già il fatto che l’uomo fosse entrato nelle grazie di Amintore Fanfani (1908-1999), che per indole e temperamento era il suo esatto contrario, costituiva una misteriosa anomalia. Tanto fumantino e istintivo era il “pony aretino” (copyright di Carlo Donat-Cattin, 1919-1991), tanto placido e riflessivo era il “coniglio mannaro” pesarese (Gianfranco Piazzesi, 1923-2001, dixit). Il primo è decisore (o decisionista) per vocazione, tanto da attirare su di sé periodiche e rituali accuse di gollismo e addirittura di fanfascismo. Il secondo è mediatore (o mediazionista) per convinzione, tanto da essere ribattezzato in Sforlani “per la sua abilità – racconta Filippo Ceccarelli nel libro Invano – nello scansare le grane, banalizzarle, dissimularle, minimizzarle, ma anche dilatarne i termini fino a raffreddarle del tutto”.

Brillante, ironico e autoironico soprattutto in privato, Forlani è il primo a scherzare sulla sua proverbiale renitenza allo scontro, alla pugna, oltre che sulla sua notoria riluttanza all’attivismo frenetico. “Mi piace il lavoro – osserva un giorno alla maniera di Oscar Wilde (1854-1900) – starei ore e ore a guardarlo, per questo mi piace Fanfani”. Sono parole che nascondono la cifra autentica del personaggio, che lo fotografano meglio di un selfie e che raccontano la sua neghittosità per il potere, la sua idiosincrasia per l’ossessione del comando.

Il curriculum politico e istituzionale di Forlani è più lungo di un manifesto e ingolosirebbe la totalità degli esseri umani. Ma l’appetito per il potere non scandisce mai le giornate del dc marchigiano. Nel 1992 davvero potrebbe giungere in cima, potrebbe diventare presidente della Repubblica, i franchi tiratori che lo hanno impallinato nei primi scrutini si vanno assottigliando, basterebbe solo insistere e il Quirinale sarebbe suo. Invece. Invece Forlani rinuncia: “Non sono la persona giusta. Non posso contrappormi alla volontà della maggioranza”. Sono trascorsi più di 30 anni da quel Grande Rifiuto. Da allora mai una un accenno, mai una recriminazione, mai una polemica su quella che sarebbe stato il coronamento di una carriera di successo, lenta, ma costante.

Sì, perché la carriera forlaniana, a dispetto della naturale refrattarietà dell’uomo nella ricerca degli incarichi, è stata tutt’altro che leggiadra o episodica. Se la Democrazia Cristiana era il centro, Forlani era il centro del centro. Del resto, anche da promettente calciatore (incrocia persino Giampiero Boniperti, 1928-2021) della Vis Sauro Pesaro, in serie C, lui gioca a centrocampo, tra difesa e attacco. E chissà ora come passerà alla storia, se per essere stato l’artefice del preambolo anticomunista per le alleanze dello scudo crociato; o il tessitore del Caf (la tela filo-craxiana e anti-demitiana estesa anche a Bettino e al Divo Giulio); o l’impaurito imputato (con i residui di saliva alla bocca impietosamente sottolineati dalle tv) di fronte alle cannonate di uno scatenato Antonio Di Pietro, centravanti del pool di Mani Pulite; o il presidente del Consiglio dimissionario dopo la scoperta delle liste della P2 (coinvolti un paio di ministri del suo governo). Di sicuro Forlani sarà ricordato per essere stato il simbolo del Partito della Moderazione negli anni della Prima Repubblica.

Due volte segretario dc, più volte ministro, Forlani non si discosta mai dalla sottile lezione degasperiana: la Dc è un partito di centro che guarda a sinistra o, viceversa, un partito di centrosinistra che guarda a destra. Certo, dello statista trentino, Forlani non possiede la predisposizione per le scelte nette, ma in Alcide De Gasperi (1881-1954) scorreva sangue teutonico, non italico. E pur tuttavia Forlani va quasi fiero della propria pigrizia decisionale, sorretto dalla consapevolezza che la politica è il regno dell’eterogenesi dei fini e che la nevrosi riformista spesso produce più angosce che serenità, più problemi che soluzioni. Meglio un riformismo dolce, ponderato.

Il suo anticomunismo è a prova di bomba, rafforzato dall’idea che i cambiamenti radicali di un ordine sociale quasi mai portano al paradiso in terra, semmai all’inferno. Viceversa, il suo filosocialismo, da declinare in filo-craxismo, non conosce pause o pentimenti. Così come era stato impressionato da Fanfani, un cavallo di razza sempre al galoppo, così Forlani viene conquistato da Bettino Craxi (1934-2000), un leone sempre a caccia. Entrambi giocheranno di sponda nel decennio conclusivo della Prima Repubblica. Un decennio per molti versi drammatico sul piano nazionale, ma caratterizzato sul piano internazionale da scelte epocali, vedi l’installazione dei cosiddetti “euromissili” in Europa, misura difensiva resa necessaria dopo il dispiegamento dei missili sovietici (SS 20) ai confini dell’Europa occidentale. Senza il sì dell’Italia, cui danno una mano decisiva proprio Craxi, Forlani e Francesco Cossiga (1928-2010), probabilmente non se ne sarebbe fatto nulla e il Vecchio Continente sarebbe rimasto senza rete protettiva, alla mercé dell’Armata Rossa e dei bombardieri di Leonid Breznev (1906-1982).

Se Craxi è il completamento esterno di Forlani, De Mita (1928-2022) è il suo complemento interno. I due, Arnaldo e Ciriaco, sono amici e rivali, a volte avversari, ma mai nemici. Nel 1969 danno vita al celebratissimo “Patto di San Ginesio”, dal nome del paese marchigiano in cui si svolge il convegno galeotto che segna l’avvento della cosiddetta terza generazione ai vertici di Piazza del Gesù, sede romana della Dc. Forlani segretario, De Mita vicesegretario. Una svolta che per le morbide abitudini della casa, ha l’odore di un’insubordinazione, forse di una rivoluzione, a sua volta ribaltata quattro anni dopo (1973) dal patto di Palazzo Giustiniani (protagonisti Fanfani e Moro) che riporta l’aretino capocorrente di Forlani alla guida del partito.

Forlani è uscito dalla scena terrena a 97 anni. Di fatto era uscito dalla scena politica più di 30 anni addietro, non già per la doccia fredda sul pentapartito alle elezioni politiche 1992 (boom della Lega di Bossi) o per le montanti inchieste di Mani Pulite, quanto per il “fuoco amico” da lui sùbito nella gara per il Quirinale, “fuoco amico” cui, come tutti sanno, egli non volle replicare pur sapendo di possedere molte munizioni per giungere al traguardo, sul Colle. Quasi tutti concordano che se Forlani avesse deciso diversamente, sarebbe stata tutta un’altra storia.

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