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L’euro ha perso il 20% del suo valore rispetto alla fine del 2008. Considerando legittimamente il dollaro americano la moneta di riferimento dell’economia globalizzata, ecco aprirsi una possibilità per le esportazioni dell’area euro. Con un piccolo sforzo di memoria, ricordiamo l’importanza delle svalutazioni competitive della lira nel risollevare le sorti dell’economia domestica. Tale spinta rimane però di corto respiro se il beneficio ottenuto dalla crescita delle esportazioni non viene capitalizzato in un miglioramento strutturale della competitività del sistema economico.
Tuttavia il breve periodo pesa parecchio in questi mesi in cui si cerca una via di uscita dalla crisi. La Germania sembra averla trovata: austerità all’interno, vendite all’esterno. Se l’azionista di maggioranza dell’Unione economica e monetaria ha deciso di crescere come la Cina, siamo tutti in grado di starle dietro? Ecco alcune libere riflessioni: 1) L’effetto positivo di un euro indebolito è ridotto dal fatto che metà dell’export dei Paesi dell’area euro – in particolare il 58% per la Germania e il 57% per l’Italia – è rivolto ai restanti quindici Paesi dell’area stessa. 2) Stati Uniti e Far East sembrano aver ripreso a crescere a tassi più elevati dei nostri e questo è un buon segnale per il nostro export, ma i primi hanno cominciato ad essere più formiche (un riconoscimento per questo mensile, un disconoscimento per l’essere cicale indebitate), i secondi a richiedere un welfare più evoluto e quindi più oneroso. 3) A fronte di un export appetibile, l’import potrebbe essere caro, molto caro quando l’elasticità della domanda è bassa, come nel caso delle materie prime e delle risorse energetiche. Il rischio di importare inflazione può essere oggi controllato da un’inflazione interna bassa; bassa fino a quando il denaro pubblico immesso nel sistema negli ultimi mesi, per il principio dei vasi comunicanti, inizierà a mostrarsi nei valori nominali.
 
Una riflessione aggiuntiva per il nostro Paese. Il prezzo di quello che vendiamo all’estero ha una componente legata al tasso di cambio e un’altra legata al costo di produzione. Se, come accennato in precedenza, ben il 57% del nostro export è diretto agli altri quindici Paesi dell’area euro, il tasso di cambio incide soltanto sul rimanente 43% di quello che esportiamo, cioè quello al di fuori dell’area euro. Il costo di produzione ha invece un impatto su tutto l’export e diventa uno dei principali vantaggi competitivi se consideriamo rivali, nei mercati internazionali, gli altri quindici Paesi dell’area euro.
Sappiamo che a guadagnare di più da una svalutazione sono i settori a più elevata intensità di lavoro. Con un euro più debole sono più costose le materie prime (solitamente importate) e il capitale (prezzato su un mercato internazionale). Il lavoro è invece un fattore produttivo tutto nazionale che viene pagato con un euro, che adesso vale di meno. Una vera e propria manna per il made in Italy che vede nella manodopera il driver per la competitività.
Ma se consideriamo il costo del lavoro con riferimento alla sua produttività, ecco scoprire un’amara sorpresa. La risposta la troviamo nel calcolo del costo reale di unità di lavoro, ovvero il costo nominale del lavoro diviso il Pil nominale sul totale degli occupati. A parità di produttività, il costo del lavoro in Italia è cresciuto negli ultimi dieci anni più della media dei 16 Paesi dell’area euro e molto di più della Germania. Ovviamente il dato macroeconomico, in quanto aggregato, è un cappello che nasconde le tante eccellenze italiane che altre statistiche hanno messo in risalto. Tuttavia nell’ultimo anno (aprile 2010 su aprile 2009), la Germania ha aumentato l’export extra Ue del 22% e noi del 13%. Un bel segnale nel post crisi, ma un motivo per riflettere sui vantaggi competitivi del nostro sistema-Paese.

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