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Espansosi il Piemonte, restavano da fare gli italiani: a cominciare dai piemontesi. Che già al momento del trasferimento della capitale a Firenze, con le loro barricate, mancò poco che rischiassero di provocare seri ripensamenti fra i piccoli ma fieri gruppi che avevano creduto, e lottato, per l’Unità d’Italia, non per una più grande casa Savoia.
Il Risorgimento non vide grandi partecipazioni di popoli. Fu un processo élitario che ricorse a vari modi per escluderne le grandi masse.
Certamente ciò derivava dalle stesse modalità (le censuarie) che segnarono il passaggio dall’assolutismo agli ordinamenti costituzionali. Ma l’esclusione riguardò oltre il 90% dei cittadini. Buona parte dei quali era di fede cattolica. Anche la politica svolse la sua parte negativa. Determinando le condizioni per una Unità contorta, contestata, più imposta che richiesta.
Quanto ai cattolici, se finirono col ritrovarsi minoritari, erano però partiti maggioritari. In un certo senso, e comunque nella fase più significativa delle lotte indipendentiste dell’Europa austriacante (1846-1848), i cattolici furono protagonisti, non comparse. Anche per questo è bene riflettere sui moti antecedenti l’Unità. Una storia di decenni di tentativi non occasionali, sia meditati che complottistici e utopici: insorti in tutti gli Stati italiani esistenti.
Mentre nella regione più decentrata del nord-ovest la classe dirigente non fu prodiga di modernità, né di volontà davvero unitarie.
La causa italiana suscitò sinceri entusiasmi al momento della elevazione al soglio pontificio di papa Mastai, Pio ix. L’Austria, l’impero che respingeva ogni anelito di libertà reprimendo con severità prossima alla ferocia, riteneva di potere oltre misura influenzare il conclave cardinalizio.
 
L’Inghilterra e la Francia, reciprocamente guardinghe, spalleggiavano questo o l’altro Stato, questo o quel cardinale. In realtà nessuna di tali potenze voleva un’Italia unita. Per il motivo lampante che un’Italia unitaria sarebbe diventata – per ricchezze naturali, insediamenti industriali, modernizzazioni tecniche, monumenti inestimabili e, soprattutto, per la sua posizione dominante nel Mediterraneo – la potenza più forte dell’intera Europa.
L’elezione di Pio ix rischiò di diventare il punto massimo di attenzione per le popolazioni cattoliche italiane (e per qualche tempo lo fu). Ma anche un potere temporale che poteva mettere le redini ad Austria, Francia e Inghilterra: le ultime due con Chiese nazionali e, l’ultima, addirittura separata da quella cattolica. Un potere temporale che, accentuando l’intrinseco potere spirituale, avrebbe potuto mettere in discussione sia l’anglicanesimo che il gallicanesimo.
Se di per sé il moto riformatore interessò buona parte dei territori europei centro-meridionali, le idee liberali del pontificato stavano accentuando un pensiero cattolico liberale che poteva informare di sé tutti gli Stati italiani preesistenti. Cattolici liberali del calibro di Alessandro Manzoni, Cesare Balbo, Antonio Rosmini, Vincenzo Gioberti e via via altri toscani e laziali, non congiuravano: operavano per convincere le menti più aperte della nascente Italia a darsi una effettiva coscienza nazionale.
Al momento di diventare papa, Pio ix sollevò una generale speranza di riscatto e di libertà.
 
La sua amnistia diede l’impressione che fosse finita l’epoca della incarcerazione dei dissidenti politici. Lasciò intendere che non c’era bisogno di violenza per diventare uniti e di unificare tutti i popoli italici. Persino il repubblicano e laico Cattaneo inneggiò a Pio ix considerandolo determinante nel portare concretamente a unità tutti gli Stati e tutti i popoli della penisola. Promulgò una costituzione per lo Stato romano che anticipò lo Statuto albertino “concesso” per non ritrovarsi ultimi, visto che, a partire per primo nell’introdurre costituzioni, era stato il Regno delle due Sicilie, suscitando ammirazione più nelle plebi che nei baroni meridionali.
Gioberti era un abate che stampava i suoi libri in Francia e in Svizzera per non rischiare censure in Piemonte. Balbo era il più attivo neoguelfo che avesse dietro di sé un partito vero e proprio. Rosmini, anch’egli un abate rettore di seminari, era un personaggio con grande autorità e autorevolezza di pensiero, temuto dalla corte torinese perché raccoglieva adepti in Piemonte, Lombardia, Emilia, Toscana e Roma. Tanto che uno dei tanti traballanti governi piemontesi – quello del primo ministero a guida di un lombardo (cioè di uno “straniero”) – che si alternarono appena prima della sconfitta subita nella Prima guerra d’indipendenza, gli affidò una delicata missione a Roma nel tentativo di trovare un’intesa per dare vita almeno ad un’Unità dell’Italia superiore. Una missione viziata in partenza dal rifiuto piemontese di discutere con Napoli e di aderire ad alcuna soluzione che potesse infirmare la centralità piemontese.
 
Rosmini fu l’uomo che collaborò con Cavour ai fini di una convergenza fra laici e cattolici per dare vita ad un’Italia davvero liberale, liberatasi d’ogni ideologismo francesista e lontana dall’idea che l’unità potesse raggiungersi con la violenza. Collaborò con Il Risorgimento di Cavour particolarmente nei mesi di luglio e agosto 1848, quando furono in bilico tanto le sorti della guerra con l’Austria, che lo spirito espansionistico del Piemonte. Fu Rosmini a intuire la formula “libera Chiesa in libero Stato” sulla quale Cavour convenne, facendola propria. Era riuscito a suscitare la comprensione di Pio ix, che lo avrebbe voluto come proprio segretario di Stato. Ma un nuovo governo piemontese fece fallire le trattative in corso a Roma, determinando due reazioni: un irrigidimento delle posizioni laiciste in Piemonte nel timore di fare eccessive concessioni ai cattolici e alla Chiesa, e una intransigenza antiunitaria e reazionaria dei cardinali che non avevano mai creduto ad una unità italiana che, se concedeva al papa il primato spirituale, non accettava però la liquidazione del potere temporale della Chiesa.
Nella morsa fra laicisti anticlericali e cardinali reazionari, Pio IX si ritrovò esiliato a Gaeta. Le dissidenze convergenti di Torino e Roma ebbero la meglio (con danni enormi nel processo formativo di una coscienza nazionale unitaria). Rosmini se ne tornò a Stresa a scrivere le memorie della sua fallimentare missione a Roma. Sui cattolici cadde l’obbligo di disinteressarsi della causa italiana. Sull’Italia calò un’ondata di pessimismo che neppure la fine della Terza guerra d’indipendenza riuscì a cancellare. Nel frattempo Rosmini non c’era più. Anzi, sull’abate si era abbattuta l’ira dei reazionari che misero all’indice quasi tutte le sue opere. Col risultato che i cattolici italiani, per trovare una loro significanza politica, dovettero attendere molti decenni: finché don Luigi Sturzo, col suo popolarismo, riuscì ad attenuare, nelle istituzioni liberali in declino, il peso rilevantissimo che i cattolici si portavano dentro come cittadini validi, non confessionali, amanti della libertà e della democrazia.

Rosmini e Cavour, la coppia non troppo strana

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