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Che anno è stato il 2011 per la libertà in Medio Oriente e Nord Africa! Abbiamo assistito a quella che potrebbe davvero essere stata la prima rivoluzione araba in nome della democrazia, seguita dalla seconda, poi dalla terza. In Yemen la gente reclama una transizione alla democrazia, che merita di vedere realizzata. I siriani non si arrenderanno fin quando anche loro non potranno decidere del loro futuro.
 
I popoli del Medio Oriente si sono infusi coraggio a vicenda nel corso di questo 2011. Si sono dissolte antiche paure. Uomini e donne hanno cominciato a chiedere risposte alla luce del sole. Così facendo, hanno dato coraggio anche ai nostri diplomatici. Vorrei ora parlare di qualcuno che è qui con noi stasera. Quando il nostro ambasciatore in Siria è stato circondato, assalito e minacciato per il solo fatto di aver incontrato pacifici dimostranti, egli si è esposto in prima linea, per far saper al popolo siriano che l’America sta dalla loro parte, affermando di essere ispirato dal loro coraggio. Quando ha raggiunto Hama, città sotto assedio da parte del regime di Assad, la gente lo ha accolto coprendo di fiori la sua macchina. Per questo vorrei che tutti salutassimo con calore l’ambasciatore Robert Ford e sua moglie Alison Barkeley, ex funzionaria della nostra diplomazia. Grazie davvero ad entrambi per la vostra dedizione al servizio del nostro Paese.
 
A Tunisi, Cairo e nella Tripoli appena liberata ho incontrato persone dallo spirito sollevato, consce che il futuro ormai appartiene a loro. Nei miei viaggi attraverso la regione ho percepito gioia, grandi speranze e un ritrovato orgoglio. Ma ho anche sentito domande. Ho ascoltato le domande scettiche sui reali moventi dell’America, e sul suo impegno nella regione; molti si chiedono se, dopo decenni di collaborazione con i governi dell’area, alla fine noi non siamo nell’intimo convinti che era meglio prima; ci sono attivisti che dicono che non stiamo facendo abbastanza per sostenere il cambiamento democratico, altri invece dicono che stiamo facendo fin troppo; alcuni poi si chiedono perché le nostre politiche variano da nazione a nazione, e cosa succederebbe in caso di elezioni che portassero al potere partiti di cui non condividiamo le idee, o che semplicemente non ci sono amici. Ho sentito alcuni chiedere che l’America risolva tutti questi problemi, e altri chiedersi se dobbiamo avere un qualsiasi ruolo in tutto questo. Al di là della nostra gioia per i milioni di persone che reclamano diritti e libertà in cui crediamo, molti pongono domande.
 
E stasera voglio rispondere ad alcune di queste difficili domande. È un tributo che devo a persone come Geraldine Ferraro e Richard Holbrooke e Chuck Manatt, persone a cui piaceva porre domande difficili e cercare una risposta insieme. Poiché viviamo giorno per giorno questa vicenda, ci approcciamo a queste domande con una forte dose di umiltà, perché molte delle scelte di fronte a noi sono, onestamente, non nella nostra potestà. È comunque il caso di fare un passo indietro e cercare di parlare direttamente alle preoccupazioni della gente.
Lasciate che cominci con una domanda che sento spesso: crediamo davvero che la transizione democratica in Medio Oriente e Nord Africa sia nell’interesse dell’America? È una domanda perfettamente legittima. D’altra parte, ogni transizione è piena di incertezze, può essere caotica, destabilizzante, perfino violenta. E anche se riesce, difficilmente è lineare, rapida o semplice.
 
Come abbiamo visto nei Balcani e poi di nuovo in Iraq, le rivalità tra differenti religioni, gruppi settari o tribali può riemergere ed esplodere. Abbattere i tiranni non vuol dire che la democrazia seguirà subito dopo, o che sarà duratura. Chiedete agli iraniani, che abbatterono un dittatore trentadue anni fa, solo per vedere la loro rivoluzione presa in ostaggio dagli estremisti che li opprimono tuttora. E anche laddove la democrazia si impone, è ben possibile che alcuni degli eletti si opporranno alle nostre politiche. E tuttavia, come il presidente Obama ha detto al Dipartimento di Stato lo scorso maggio “la politica americana sarà di promuovere le riforme in tutta la regione e di appoggiare la transizione alla democrazia”. Noi crediamo che un reale cambiamento democratico in Medio Oriente e nel Nord Africa sia nell’interesse nazionale degli Stati Uniti. Ed ecco perché.
 
Primo, rifiutiamo la falsa alternativa tra progresso e stabilità. Per lungo tempo i dittatori si sono legittimati con la scusa che l’autocrazia era meglio dell’ignoto, cioè del pericolo estremista. E troppo spesso anche noi abbiamo accettato quest’ideologia. Ora è vero che l’America è stata dalla parte delle riforme, ma spesso non con troppa convinzione o in modo abbastanza pubblico. Ed oggi siamo consapevoli che la vera alternativa è tra riforme e rivolte.
 
Lo scorso gennaio dissi ai leader arabi che le fondamenta della regione stavano affondando nella sabbia. Anche se non sapevamo esattamente come o quando ci sarebbe stata la rottura, era chiaro che lo status quo non poteva durare a causa dei cambiamenti demografici e tecnologici, dell’alta disoccupazione, della corruzione endemica e della mancanza di diritti umani e di libertà fondamentali. Dopo un anno di rivoluzioni trasmesse in diretta da Al Jazeera nella case da Rabat a Riyhad, tornare a prima del dicembre 2010 non solo non è desiderabile. È impossibile.
 
La verità è che la principale singola causa di instabilità nel Medio Oriente di oggi non è la richiesta di cambiamento, ma l’opposizione al cambiamento. È questo certamente il caso della Siria, dove la repressione di un piccolo e pacifico movimento ha trascinato migliaia di persone sulle strade e spinto molte altre migliaia oltre le frontiere. È il caso dello Yemen, dove il presidente Saleh ha ripetutamente disatteso le promesse di una transizione democratica, sopprimendo i diritti e le libertà del suo popolo. Ed è il caso anche dell’Egitto. Se nel medio periodo la principale forza politica dell’Egitto dovesse rimanere un pugno di funzionari non eletti, verrebbe gettato il seme di nuove rivolte. Gli egiziani, così, perderebbero un’occasione storica. Anche noi perderemmo un’occasione storica, perché le democrazie rappresentano alleati più forti e più stabili. Esse sono più aperte al commercio, più innovative e meno bellicose. Nelle società attraversate da conflitti, aiutano a renderli espliciti e risolverli, pretendono che i leader politici rispondano dei loro errori nelle urne, indirizzano le energie civili lontano dall’estremismo e verso l’impegno politico e civile. Ora, non sempre le democrazie sono d’accordo con noi, e in Medio Oriente e Nord Africa potranno anche essere in forte disaccordo con alcune delle nostre politiche. Ma alla fine non è una coincidenza che i nostri più stretti alleati – dalla Gran Bretagna alla Corea del Sud – siano democrazie.
 
Ora stiamo lavorando con molti governi diversi per difendere i nostri interessi e la sicurezza degli americani, e non tutti questi governi, certamente, sono democrazie. Ma come ha dimostrato la caduta di Hosni Mubarak in Egitto, la stabile e duratura cooperazione che chiediamo ai nostri alleati è molto difficile da ottenere se questi non godono di legittimazione democratica e consenso popolare. Non possiamo perseguire la sicurezza nel qui ed ora, e contemporaneamente promuovere la democrazia in un lungo periodo, che alla fine non arriva mai.
Per tutte queste ragioni, come ho sostenuto lo scorso marzo, aprire i sistemi politici, sociali ed economici non è soltanto idealismo. È una necessità strategica. Noi non operiamo nel nostro esclusivo interesse. Come americani, riteniamo che il desiderio di dignità e di autodeterminazione sia universale, e cerchiamo di agire in tutto il mondo sulla base di queste convinzioni. Gli Americani hanno combattuto e sono morti per questi ideali, e quando la libertà avanza, ovunque essa avanzi, gli Americani ne traggono incoraggiamento.
 
Per questo i rischi delle transizioni non ci impediranno di sostenere i processi di cambiamento. Ma i rischi ci sono, ed alzano la posta in gioco. Elezioni libere, regolari ed effettivamente democratiche sono necessarie, ma non bastano se portano al potere nuovi autocrati o sopprimono i diritti delle minoranze. Qualsiasi democrazia che non sia inclusiva verso metà della popolazione, quella femminile, è una contraddizione in termini. La solidità della democrazia dipende da forti società civili, dal rispetto dello Stato di diritto, da istituzioni indipendenti, dalla libertà di espressione e da una libera stampa. I partiti politici ammessi al gioco democratico non possono avere un’ala militare ed un’altra politica. I partiti devono accettare gli esiti di elezioni libere e regolari. E ciò non solo in Medio oriente. In Liberia la principale forza di opposizione sostiene infondatamente che vi siano stati brogli, rifiutando di accettare l’esito elettorale del primo turno in cui è arrivata seconda. E ciò sta provocando gravi conseguenze sul terreno. Chiediamo a tutti i partiti in Liberia di accettare la volontà popolare nel prossimo turno elettorale domani, come richiesto dalla democrazia.
(…)
 
Estratto dal discorso tenuto in occasione dei Democracy awards del National democratic institute a Washington il 7 novembre 2011, pubblicato in allegato a Formiche di dicembre

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