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Il 7 settembre, al Forum di Kunming dedicato ai think tank dei media del Global South, lo Xinhua Institute ha presentato un rapporto dal titolo eloquente: “Colonization of the Mind: The Means, Roots, and Global Perils of U.S. Cognitive Warfare”. Una sorta di tao zei xi wen, secondo la Jamestown Foundation. Ovvero il proclama di guerra con cui nella Cina imperiale si enumeravano i crimini del nemico per cementare il fronte interno. Oggi calibrato per offrire al Sud globale una griglia di lettura alternativa all’egemonia americana.

Al centro, un’accusa: gli Stati Uniti non solo esercitano pressioni militari ed economiche, ma conducono una vera e propria colonizzazione delle menti. La guerra cognitiva, secondo Pechino, sarebbe lo strumento con cui Washington penetra nei sistemi informativi e culturali del Sud globale per destabilizzare governi, fomentare conflitti interni e creare élite politiche e sociali fedeli agli interessi americani.

La grammatica dell’egemonia

Il lessico utilizzato da Xinhua è significativo. Si parla di maschere nere, bianche e grigie per descrivere i diversi livelli della propaganda americana, dalla più trasparente (Hollywood, Voa, Fulbright) alla più segreta (Cia, covert actions, deepfake). È la costruzione, secondo il think tank legato al Partito, di un sistema operativo multilivello, che sfrutta allo stesso tempo hard power tecnologico e soft power culturale.

In questa cornice, l’egemonia statunitense si articolerebbe seguendo cinque dimensioni: politica, militare, tecnologica, economica e culturale. Secondo Pechino, tre di queste sono già state erose; il dossier punta il dito sulle ultime due, ancora da smantellare: dollaro e soft power.

L’arma narrativa

La novità non è tanto il contenuto ma l’evoluzione discorsiva. La formula “colonizzazione della mente”, sottolinea la Jamestown Foundation, nasce da un articolo apparso nel 2024 su Guancha, firmato da uno studioso venezuelano che invitava il Sud globale a “decolonizzare il pensiero” per liberarsi dal controllo occidentale. Da allora il termine è diventato virale nelle piattaforme cinesi, gonfiato dai canali ufficiali e dai key opinion leader vicini al Partito.

Nel linguaggio della propaganda interna, questa narrativa funziona come panacea. Ogni tensione sociale, dai dibattiti sulla medicina tradizionale cinese alle controversie familiari, può essere riletta come prodotto di forze ostili esterne.

Il metodo innesca una reazione a catena che riduce le contraddizioni interne a effetti di una guerra cognitiva esterna, trasformando così l’America in un nemico ontologico e ideologico.

La partita globale

Per gli apparati di Pechino, l’operazione ha due obiettivi. Sul piano interno, consolidare il consenso spostando il conflitto sociale verso il nemico esterno. Sul piano internazionale, proporre al Sud globale uno strumento di lettura alternativo. Secondo lo Xinhua Institute, gli Stati Uniti avrebbero costruito negli ultimi decenni un sistema a più livelli, attraverso sei pilastri operativi. Il sistema strategico, evoluto dalla propaganda di guerra alla cognitive warfare basata su neuroscienze e intelligenza artificiale; il sistema organizzativo, con agenzie governative, think tank e Ong. Il sistema valoriale, che trasforma “democrazia, libertà e diritti umani” in strumenti di penetrazione ideologica. Il sistema mediatico, fondato su colossi dell’informazione tradizionale e digitale, da Hollywood a X (Twitter), da Cnn a YouTube. Il sistema contenutistico, che integra cultura pop, istruzione accademica e marchi globali come Coca-Cola e McDonald’s in un flusso costante di americanizzazione ed il sistema tecnologico, che fa leva sul controllo delle infrastrutture di comunicazione e sul dominio delle piattaforme digitali.

La scherma delle menti

Così, ogni tensione sociale può essere interpretata come prodotto di infiltrazioni ideologiche americane e dissidenti e commentatori critici vengono spesso bollati come “forze straniere”. È un meccanismo, osserva la Jamestown Foundation, che serve a deresponsabilizzare le istituzioni e rafforzare l’idea che il nemico sia esterno, in una logica da assedio permanente.

Dietro la retorica si intravede la strategia di lungo periodo: proporre al Sud globale una scelta dicotomica. Da un lato, la via occidentale, presentata come coloniale e manipolatoria. Dall’altro, la decolonizzazione del pensiero proposta da Pechino, che si incardina nei progetti di Belt and Road e nei fori multilaterali con Asia, Africa e America Latina. Nel risiko narrativo globale, chi stabilisce le parole chiave e i frame interpretativi conquista l’agenda politica e culturale.

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