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Spiegare “perché non ci interessa il dopo Berlusconi” è il miglior servigio che si possa rendere oggi alla maturazione politica del Paese. Viceversa, intestardirsi a ridurre tutto il dibattito all’interrogativo su “chi verrà dopo” vuol dire irritare gli italiani e rendere ancora più futile un confronto che è già superficiale di suo e avrebbe bisogno di un supplemento di serietà.
Non ha importanza chi verrà dopo Berlusconi. Non ha importanza quanto l’attuale premier resterà ancora al comando, se otterrà in futuro di essere eletto al Quirinale e quale eredità lascerà agli elettori che da un quindicennio lo votano copiosamente. Nessuno di questi falsi interrogativi è realmente utile a capire il senso della vicenda italiana.
È più utile domandarsi se ci stiamo avviando verso una forma di bipartitismo, destinato a tagliare fuori le forze intermedie, ovvero se resteremo dentro la cornice dell’attuale assetto bipolare. Come tale suscettibile di sviluppi oggi non del tutto prevedibili.
Non solo. È più utile porsi il problema che l’editoriale di Formiche mette in primo piano: se sarà possibile nei prossimi due o tre anni, comunque prima della fine della legislatura, avere una Costituzione rinnovata. E rinnovata, bisogna aggiungere, non in senso leaderistico, quasi si trattasse di ratificare quel presidenzialismo di fatto che già caratterizza il sistema politico-istituzionale. Al contrario: la riforma della Carta, per avere un senso, deve dare maggiore equilibrio e maggiore efficienza all’assetto bipolare.
Oggi abbiamo un bipolarismo lacunoso e inefficace. Per cui, ad una maggioranza ampia e priva di grosse contraddizioni al suo interno si oppone un Parlamento troppo spesso incapace di esercitare una forma di controllo puntuale. È la questione ben nota, posta anche dal presidente della Camera Fini: troppi decreti legge, troppi voti di fiducia. Il governo vuol fare in fretta e questo è un suo diritto; ma non può dare l’impressione di considerare il Parlamento come un luogo dove si perde tempo.
Penso che il futuro della politica italiana, e dunque anche del centrodestra, passi di qui. Dalla capacità di ridefinire le regole in modo trasparente, aiutando il sistema a trovare il suo punto di bilanciamento. Non ha molto significato proporre una “rivoluzione liberale” quindici anni dopo la prima vittoria del ‘94, senza tuttavia precisare di cosa si tratti. Senza fissare il quadro istituzionale entro cui dovrà realizzarsi. Senza indicare tre o quattro obiettivi privilegiati. Si rischia di bruciare una missione che invece è essenziale per l’Italia di domani.
La verità è che le forze di domani, i partiti o i movimenti che sapranno interpretare i mutamenti del Paese, dovranno realmente essere “liberali”. In altre parole, dovranno riscoprire gli ideali dopo la morte delle ideologie. Può sembrare banale, ma non lo è. Al contrario, è l’unico modo per restituire un’anima alla politica. La quale, restandone priva, diventa solo un cinico strumento di potere.
Si capisce allora che il “dopo Berlusconi” è oggi un problema privo di interesse. Partiamo da un diverso approccio. Berlusconi è stato uno straordinario fenomeno di innovazione. Il suo dinamismo non ha eguali negli ultimi trent’anni. Chiunque voglia giudicare l’uomo e il suo tempo con il senso della storia e non con la faziosità della contrada, deve ammettere questa verità. Tuttavia non è vero che Berlusconi ha in qualche misura ucciso la politica, riconducendola tutta a se stesso e al suo egocentrismo. Se questo è in parte avvenuto, la responsabilità non è del presidente del Consiglio, bensì di tutti coloro – collaboratori oppure oppositori – che non hanno saputo svolgere la loro parte fino in fondo. Anziché restare attoniti di fronte a Berlusconi che annuncia una “rivoluzione liberale” e cui probabilmente egli stesso crede poco, sarebbe stato meglio adoperarsi per realizzarla. O almeno per annunciarla agli italiani con maggiore credibilità. È proprio quello che non è successo. Ogni partito ha curato i propri orti elettorali, le proprie corporazioni, le proprie aree di privilegio. Questo gli ha permesso di sopravvivere, ma certo non di invertire una tendenza. Con i suoi pregi e i suoi limiti, Berlusconi ha stravinto grazie alle debolezze dei rivali. Alla loro incapacità di contrapporre un progetto vincente, ossia un serio modello di Paese, alla personalità debordante dell’uomo di Arcore. Berlusconi ha interpretato da par suo l’Italia di questi anni. Eppure poteva essere battuto, se solo avesse avuto interlocutori più brillanti e fantasiosi di lui. Viceversa ha in genere trovato, salvo eccezioni meritorie, personaggi più conservatori o intimoriti o impacciati. Prigionieri delle vischiosità del sistema.

In assenza di alternative

Spiegare “perché non ci interessa il dopo Berlusconi” è il miglior servigio che si possa rendere oggi alla maturazione politica del Paese. Viceversa, intestardirsi a ridurre tutto il dibattito all’interrogativo su “chi verrà dopo” vuol dire irritare gli italiani e rendere ancora più futile un confronto che è già superficiale di suo e avrebbe bisogno di un supplemento di serietà.…

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