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Il panico si diffonde nell’eurozona. L’Italia e la Spagna sono finite nell’occhio del ciclone. Il Belgio sta entrando nella zona di pericolo. E poiché anche la Francia è coinvolta e i suoi titoli di Stato vedono crescere lo spread con quelli tedeschi, l’alleanza politica che ha guidato l’integrazione europea negli ultimi sessant’anni è messa a dura prova. Anche robusti nuotatori come Finlandia e Paesi Bassi stanno faticando non poco con la corrente contraria. Le banche a stento riescono a rimanere a galla, ma il loro capitale non offre un appiglio solido, visto il deflusso di fondi; le attività imprenditoriali che dipendono dal credito sono anch’esse, di conseguenza, in grave difficoltà. Insomma, tutto sembra indicare una recessione dell’eurozona.
 
Se questo panico sulla tenuta del debito sovrano non verrà contenuto in qualche modo, diventerà una profezia che si autoavvera. Proprio come una banca sana può fallire se subisce una corsa agli sportelli, anche il governo più accreditato è a rischio se il mercato rifiuta di rifinanziare il suo debito. Si possono a stento immaginarne le conseguenze: banche che crollano e Stati che vanno in bancarotta, una devastante depressione economica, il crollo dell’euro (e forse persino dell’Unione europea), il contagio globale, e un’instabilità politica potenzialmente drammatica. E allora perché i legislatori non cercano di fare tutto il possibile per evitare questo scenario catastrofico?
 
Fin da quando i rendimenti dei Btp italiani hanno avuto un’impennata all’inizio di agosto, ho maturato la convinzione che solo un impegno senza vincoli da parte della Banca centrale europea a mantenere entro livelli sostenibili i rendimenti dei titoli di governi solvibili può calmare la situazione e dare il respiro sufficiente ad avviare le riforme necessarie a riportare fiducia sui mercati. Tutto ciò che è accaduto nel frattempo non ha fatto che confermare questa mia opinione. Ora che la crisi ha raggiunto il “cuore” dell’eurozona, le risorse necessarie a puntellare i debiti dei Paesi più fragili eccedono la capacità fiscale limitata dei Paesi più forti. Nessuna magia finanziaria può nascondere questo fatto. Lanciare una corda più lunga rischierebbe di trascinare tutti verso il basso. Mettere tutti quanti sulla stessa scialuppa di salvataggio (attraverso gli Eurobond sostenuti da garanzie congiunte e multiple) non è oggi legalmente possibile, e sarebbe un errore politico se venisse tentato prematuramente. Né d’altronde una crisi a carattere sistemico può essere affrontata da interventi di singoli governi, non ultimo perché il panico sta sopraffacendo la capacità di risposta degli uomini politici. Solo la Bce ora dispone in modo non limitato delle leve necessarie per salvare l’Europa dall’abisso.
 
La Bce ha un forte movente ad agire: assicurare la rapida trasmissione dei meccanismi di politica monetaria, prevenire una depressione che porterebbe alla deflazione ed evitare la deflagrazione dell’euro. Eppure, finora ha sempre rifiutato di intervenire, nascondendosi dietro un paravento legale. Va subito chiarito che l’articolo 123 del Trattato di Lisbona proibisce alla Banca centrale europea di acquistare titoli di debito direttamente da enti pubblici, ma non un suo intervento nel mercato secondario. E la Bce da tempo opera in questo senso attraverso il cosiddetto Securities market program. E nessuna parte del Trattato vieta espressamente l’estensione di questo programma. Anzi, un impegno credibile e senza limiti temporali a contenere gli spread dei rendimenti richiederebbe addirittura meno investimenti da parte della Bce di quanti attualmente messi in campo nel suo limitato e temporaneo programma.
 
Purtroppo molti in Germania, e soprattutto alla Bundesbank, aborrono l’idea di un intervento della banca centrale, perché li riporta al 1923, anno in cui l’allora Reichsbank si mise a stampare moneta per finanziare i prestiti governativi, e tuttavia l’iperinflazione che ne risultò distrusse i risparmi della classe media. Dieci anni più tardi Hitler salì al potere. I tedeschi dovrebbero però ricordare che fu il panico finanziario provocato dal fallimento della banca austriaca Creditanstalt, il successivo crollo borsistico e le errate valutazioni dell’establishment tedesco che aprirono la strada ad Hitler. La storia non invita all’inazione, ma al suo contrario. E poi, non c’è motivo di temere l’inflazione quando la crescita della massa monetaria è lenta, il credito bancario è in contrazione e i consumatori tendono ad accantonare denaro più che a spenderlo. Inoltre, gli acquisti da parte della Banca centrale europea possono essere ancora sterilizzati.
 
Un’altra obiezione è che l’intervento della Bce potrebbe allentare la pressione sui governi italiano e spagnolo ad attuare le riforme. A dire il vero però, i riformatori non hanno tempo per far valere le loro credenziali, e se l’eurozona dovesse rompersi, la porta sarebbe aperta agli estremisti populisti. Ed allora: perché Eurotower non stringe un accordo con i governi di Stati solventi, impegnandosi a tenere sotto controllo gli interessi sul loro debito nella misura in cui essi procedono sulla via delle riforme? I leader dell’eurozona potrebbero anche stabilire una roadmap verso gli eurobond, un percorso soggetto a condizioni molto stringenti e legato ad un meccanismo credibile che assicuri prudenza fiscale. Ciò darebbe un ulteriore incentivo ai governi che intendano mostrarsi qualificati per avviare le necessarie riforme, e al tempo stesso rassicurerebbe la Bce e i mercati che i governi sono ancora impegnati a far funzionare l’euro.
 
Tempi eccezionali richiedono misure eccezionali – e io credo che la Bce si sentirà obbligata ad agire se la zona euro si troverà sull’orlo del baratro. Ma più la Bce rimanda, maggiore sarà il danno per l’occupazione e i risparmi, più profonda e duratura la ferita inferta alla fiducia degli investitori nel sistema finanziario costruito attorno alla moneta unica, e più alto il rischio di un esito catastrofico. Il tempo di agire è adesso.
 
© Project Syndicate 2011. Traduzione di Marco Andrea Ciaccia

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