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“La libertà per i lupi è la morte per gli agnelli”. Probabilmente in questa icastica citazione del politologo liberale britannico Isaiah Berlin risiede, in sintesi, la ragione della parabola discendente che attraversa il liberismo da oltre un decennio.
Come noto il progetto politico europeo nasce con una mission ben definita, ossia creare una zona di libero scambio tra i Paesi partecipanti. E per agevolare gli scambi si è anche creata una moneta comune che potesse fungere da pass-partout tra i partecipanti al mercato. Dopo un ventennio di buon funzionamento di questo mercato comune, oggi si avvertono i primi scricchiolii dello stesso, in coincidenza, peraltro, con i primi scricchiolii dell’ideologia di fondo che lo sorregge. Sembra pertanto sussistere una connessione tra la crisi del disegno politico-economico europeo e l’emergere di alcuni elementi di fragilità dell’ideologia liberale.
 
Ma chi sono i lupi e chi gli agnelli? Si potrebbe argomentare, in termini macroeconomici, che la finanza virtuale, generatrice di ricchezza illusoria, lasciata libera di muoversi in un vuoto di regolazione, è implosa soffocando l’economia reale. Oppure si potrebbe congetturare che il sistema delle banche, o degli astuti banchieri che le guidano, ha azzannato il gregge dei consumatori-investitori-risparmiatori, i quali hanno a costoro affidato il proprio risparmio.
Entrambe queste conclusioni sembrano in realtà accettare la premessa del fallimento del liberismo, che sarebbe di fatto seguito, con qualche decennio di ritardo, al fallimento del comunismo.
 
In realtà, il tramonto del liberismo è tutt’altro che pacifico. Anzi, l’inesorabile notaio della geopolitica sembra certificare tutt’altro verdetto. Ed infatti, è sotto gli occhi di tutti come alla recessione ormai in fieri nella gran parte della società occidentale, faccia da contraltare il boom economico di Paesi che si sono liberati dell’usbergo comunista o socialista che imprigionava i propri mercati e della classe dirigente conservatrice che impediva una reale modernizzazione del proprio sistema economico.
Se il liberismo non è morto, non può invece negarsi che lo stesso sia profondamente malato. È affetto, infatti, da un virus che ne sta minando dall’interno le radici etiche che pongono la produzione come un valore primario per la società. I sistemi produttivi di matrice capitalistica, nella misura in cui concorrono alla creazione di valore e quindi a realizzare il progresso sociale, rappresentano un bene da tutelare. Diverso è invece il caso in cui il germe della speculazione inquini i rapporti economici, introducendo nel sistema elementi destabilizzanti. Basti pensare a una serie di fattori che, nella finanziarizzazione dell’economia dell’ultimo quindicennio, hanno svolto una funzione di indebolimento del sistema economico, quali: l’uso smodato degli strumenti finanziari derivati per finalità speculative e non per la loro finalità tipiche, ossia quella di copertura del rischio; il ricorso al debito come strumento asseritamente generativo di valore (si pensi all’uso sconsiderato e distorsivo dell’effetto leva o alle operazioni di leverage buy out in voga fino a pochi anni fa); una sfrenata deregulation in campi che meritavano invece un intervento regolatorio e una overregulation in settori che, al contrario, necessitavano di minori ostacoli normativi; un incontrollato protagonismo da parte delle agenzie di rating, soggetti aventi natura privatistica, che si sono attribuiti, in via autoreferenziale, un’impropria funzione oracolare; la creazione di sistemi di remunerazione e incentivi del management che ha perso di vista ogni ragionevolezza e proporzione, per di più disallineando gli interessi degli amministratori-dirigenti con quelli degli altri stakeholder; l’esistenza di un elevato grado di entropia informativa, tale da disorientare spesso l’investitore.
 
Ma se il liberismo è semplicemente malato e non defunto ciò vuol dire che questo è anche guaribile. Basta trovare la cura appropriata. Ebbene, il medico chiamato al capezzale del nostro malato non potrebbe non prendere atto che la causa del male ha un’origine lontana, ossia non economica ma valoriale. Lo stesso Adam Smith, docente di Etica alla facoltà di Glasgow, concepiva l’economia come una costola della morale. Ebbene, quando una società smarrisce la bussola etica e viene risucchiata, come è avvenuto dal dopoguerra in poi, nel vortice del materialismo, si moltiplicano i bisogni, andando ben oltre quelli primari, e si escogitano forme di creazione fantasiosa della ricchezza.
 
Allora questa crisi potrebbe rappresentare un’occasione importante per riformattare le basi etiche del nostro vivere civile, ponendo al centro delle dinamiche di mercato le persone, piuttosto che le cose. Ma fenomeni culturali come quello appena descritto richiedono anni, se non decenni, per affermarsi e soprattutto devono essere trasversali ai diversi campi del sapere (ad esempio l’idea di un nuovo Umanesimo sta diffondendosi dal campo dell’architettura, con artisti come Ugo Sasso, al campo dell’arte contemporanea, in contrapposizione a decenni di materialismo rappresentato, tra gli altri, da opere di artisti come Andy Warhol, il quale ha elevato gli oggetti comuni a manifestazione artistica).
 
Se sapremo recuperare le radici etiche del mercato, riappropriandoci di alcuni comportamenti virtuosi che negli ultimi decenni hanno sovente latitato, allora potremo ricostruire un capitalismo su basi nuove. E soprattutto potremo trasferire la nostra esperienza a quei Paesi le cui economie stanno oggi vivendo un capitalismo giovane, ma che dovrebbero prendere coscienza degli errori commessi dalle società occidentali, per evitare di ripeterli.
Si potrebbe iniziare, giusto per citare gli elementi di distorsione del sistema sopra indicati, con: la limitazione dell’uso dei derivati al solo caso in cui si perseguano finalità di copertura del rischio; l’introduzione di tecniche finalizzate a calmierare le retribuzioni del management delle public companies; l’istituzione di agenzie di rating di carattere pubblico; l’individuazione di un più efficiente mix tra deregulation e overregulation; il miglioramento della trasparenza informativa da parte dei soggetti economici; la limitazione della leva del debito.
Occorrerebbe, insomma, sottrarre un po’ di libertà ai lupi, per salvare la vita agli agnelli.

Il mercato, tra lupi e agnelli

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