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Viviamo in un´epoca dove l´etica sembra avere invaso tutto lo spazio pubblico: il commercio è “etico”, la finanza è “etica”, le imprese adottano carte etiche, la preoccupazione delle generazioni future è rivolta verso il problema ecologico, ecc. E tuttavia il capitalismo è in tutti i suoi passaggi sempre più diffuso; l´amore del denaro, come direbbe Keynes (o la “sete dell´oro”, come direbbero gli antichi) non lo aveva finora condotto a questi livelli: stipendi esagerati e facili, rendimenti fantastici, e insieme l´oscenità della miseria del mondo, l´esplosione delle disuguaglianze, il deterioramento dell´ambiente ecc.  Non ci sono che due ipotesi possibili per spiegare questo paradosso: l´emergenza dell´etica è una reazione allo spettacolo desolante delle conseguenze morali e sociali di un mondo economico che ha di fatto abbandonato l´etica; oppure, per dirla meglio: è la pietra angolare di una nuova strategia di marketing destinata a soddisfare ancora meglio il desiderio d´accumulo del capitale. Le due ipotesi del resto non si escludono affatto reciprocamente. Ecco perché la definizione del momento attuale, caratterizzato da un grande divario tra capitalismo ed etica, non deve affatto stupire. Ma come interpretarlo? È l´assenza d´etica che ha condotto il capitalismo così sull´orlo del baratro?
 
Non c´è bisogno di sottolineare ulteriormente in questa sede la divergenza dall´etica che fu la grande menzogna, la promessa di un´impossibilità aritmetica in base alla quale le istituzioni finanziarie si impegnarono ad offrire, a promettere a tutti i loro clienti, un rendimento superiore al rendimento medio! Forse si trattava soltanto d´incompetenza? O forse, come rilevava recentemente Paul Krugman, l´attività finanziaria lecita non si è dimostrata alla fine moralmente superiore a quella di Bernard Madoff?
 
In ogni caso, nell´inversione della gerarchia tra la politica e l´economia, e spesso nella subordinazione pura e semplice della prima alla seconda, come in molti Paesi in via di sviluppo, si trova il deficit di etica del capitalismo contemporaneo. Si tratta ora di distinguere il peso di ciò che deve essere eguale e di ciò che può rimanere diseguale; è questa l´essenza, la principale attività della democrazia. È d´altronde per questo motivo più profondo, che la politica non deve essere confusa con la gestione. L´obiettivo stesso della politica è di fatto quello di una discussione e di una deliberazione sulla base delle norme della giustizia, non la mera gestione delle cose.
Lo scandalo morale del nostro tempo è proprio quello della globalizzazione della povertà, che riguarda anche i Paesi più ricchi. E più ancora quello dell´accettazione di un livello insostenibile di disuguaglianza nei regimi democratici. Poiché il nostro sistema deriva da una tensione tra i due principi, quello del mercato e delle disuguaglianze da un lato (1 euro, un voto), e, dall´altro, quello della democrazia e dell´uguaglianza (una persona, un voto), questo ci impone la ricerca permanente di un “intermezzo”, di un compromesso.
“Ecco dunque due meccanismi mediante i quali le risorse possono essere assegnate, ripartite sulla base degli usi tra le famiglie: il mercato e gli Stati. […] Anche la ripartizione delle risorse che si concentra sulle persone, intese come cittadini, non coincide, in linea generale, con quella basata sul mercato. La democrazia nella sfera politica aggrava questa discrepanza esacerbando il diritto di influire sull´allocazione delle risorse. […] Forniti, grazie al suffragio universale, di un potere politico, coloro che soffrono a causa della proprietà privata, proveranno ad utilizzare questo potere per espropriare i ricchi; in un linguaggio formalizzato, noi diremo che se l´elettore mediano è determinato, e se la distribuzione del reddito generato dal mercato è distorta verso il basso, come succede sempre, l´equilibrio maggiore (se esiste) reclamerà una maggiore parità di reddito”.
 
Ma si potrebbe facilmente dire che la combinazione di questi meccanismi, in teoria, porta a risultati meno estremi, con disuguaglianze meno grandi nel reddito, a beneficio del sistema stesso. Questa tensione tra i due principi è, in realtà, dinamica, in quanto permette al sistema di adattarsi e non rompersi, come avviene di solito nei sistemi regolati da un unico principio di organizzazione (il sistema sovietico). Solo le forme istituzionali in movimento possono sopravvivere; le altre si sclerotizzano. In altre parole, la tesi secondo la quale il capitalismo non è sopravvissuto come forma dominante di organizzazione economica grazie alla democrazia, piuttosto che a dispetto della democrazia stessa, sembra intuitivamente molto più convincente. Ne abbiamo una nuova rappresentazione oggi.
Una gerarchia normale dei valori richiede quindi che il principio economico sia subordinato alla democrazia, piuttosto che il contrario. E tuttavia i criteri generalmente utilizzati per giudicare con precisione una politica o una riforma sono dei criteri di efficienza economica.
Dan Usher  ha proposto di utilizzare un criterio diverso. Qualsiasi riforma è suscettibile di rinforzare la democrazia, o al contrario di indebolirla, di aumentare l´adesione del popolo al regime politico, o al contrario di ridurla? Mi sembra un criterio corretto. In nome di quale presunta efficienza si costringono le persone ad un minore grado di solidarietà, che è quello che le persone vorrebbero? La “democrazia di mercato”, nel senso in cui io la intendo, suppone così una gerarchia tra sistema politico e sistema economico, e quindi, l´autonomia della società nella scelta dell´organizzazione economica.
I rapporti tra democrazia e mercato sono così più complementari che conflittuali. La democrazia, impedendo l´esclusione dal mercato aumenta la legittimità del sistema economico e del mercato, limitando l´influenza della politica sulla vita delle persone, permette una maggiore adesione alla democrazia.
 
L´etica del futuro
 
 
Lo spettacolo del denaro facile, quando il primo valore è l´accumulo di capitale, offusca gli orizzonti temporali. I rendimenti finanziari elevati in modo anormale contribuiscono al deprezzamento del futuro, all´impazienza per il presente, al disincanto del lavoro. Non è necessario invocare il Vecchio Testamento, Aristotele o Tommaso D´Aquino, per illustrare come il rapporto tra il rendimento del denaro e della moralità sia problematico. Basterà fare riferimento ad Adam Smith, e non allo stesso autore della Teoria dei sentimenti morali, ma a quello della “ricchezza delle nazioni”. Egli era a favore di un rigoroso controllo dei tassi di interesse per un motivo simile a quello che ho appena delineato, il deprezzamento del futuro: “Se – dice Adam Smith – il tasso  d´interesse legale in Gran Bretagna era, per esempio, fissato ad un livello così alto come 8 o 10%…. una gran parte del capitale del Paese sfuggiva da quelli che, probabilmente, ne potevano fare l´uso più redditizio, per cadere nelle mani di coloro che lo avrebbero sprecato o distrutto”.
La svalutazione del futuro, che sarebbe conseguenza di insostenibili richieste di rendimento finanziario (ieri) o di tassi di interesse enormemente elevati (oggi) si oppone all´orizzonte temporale necessariamente lungo della democrazia. Questa opposizione è dannosa all´approvvigionamento di beni pubblici essenziali per gli Stati e, in particolare, di quelli che servono a soddisfare la cura per le generazioni future.
Il benessere delle generazioni attuali può essere analiticamente separato da quello delle generazioni future, e può anche aumentare a scapito di quello di queste ultime. In altre parole, vi è teoricamente un arbitrato politico tra le due. Una delle chiavi di questo arbitrato è il tasso sociale di preferenza temporale che, per esempio, Nicholas Stern ha scelto di rendere uguale a 0. Ovviamente è il dibattito politico, cioè la democrazia, che dovrebbe determinare il tasso.
In breve, per restituire l´etica al capitalismo, si dovrà approfittare della  rottura negativa dei tempi presenti per rompere anche concettualmente con  il passato, dottrina che ci ha portato alle gravi turbolenze dell´oggi.
Si dovrà inoltre, per restituire avvenire al futuro, “deregolamentare le democrazie”, vale a dire dare più spazio alla volontà politica, e per  una migliore regolamentazione dei mercati. Solo un tale capovolgimento della gerarchia presente permetterà di recuperare il lungo termine, e favorirà gli investimenti da parte degli Stati in beni pubblici mondiali, che costituiscono altrettanti “beni primari” o “capacità” per la popolazione del pianeta.
Si dovrebbe anche prendere più seriamente il lavoro di riflessione sulle norme della giustizia, che è caratteristica della democrazia. Su questo punto, noi proponiamo di fare del grado di disuguaglianza accettabile il soggetto di una deliberazione pubblica annuale dei Parlamenti. Questo dibattito, istruito dagli  istituti di statistica e dal lavoro dei ricercatori, avrebbe il particolare vantaggio di  evitare la deriva delle società democratiche ad un livello insostenibile di disuguaglianza, senza preavvisi né controlli, e senza che l´opinione pubblica ne sia informata. Vi è una vasta gamma di capitalismi, alcuni dei quali più etici degli altri. La pubblicità del dibattito pubblico e la loro solennità permetterebbe poi di interrompere, per una volta, la concorrenza fiscale e sociale verso il basso, distruttrice di beni pubblici, nella speranza che una concorrenza verso l´alto si costituisca.
 

La democrazia di mercato

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