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Che la Cina abbia mire imperiali, è chiaro anche a un bambino. Che il governo di Pechino abbia intenzione di dividere l’Europa dagli Stati Uniti, è altrettanto palese. Che l’imperatore Xi Jinping intenda approfittare della guerra scatenata da Vladimir Putin contro l’Ucraina per avvantaggiarsene sulla vicenda Taiwan, appare sempre più evidente, giorno dopo giorno. Del resto, il Dragone asiatico non è un tipo prodigo di regali. Se sostiene Putin e se contesta l’America, nonostante il suo sbandierato proposito di facilitare la trattativa tra Mosca e Kiev, lo fa mirando a un tornaconto, frutto di uno scambio di questo tenore: l’America cessi di proteggere Taiwan e lui, Xi, cesserà di proteggere Putin sulla questione ucraina. Joe Biden, ovviamente, non può mai accettare un do ut des di tal guisa. Se lo accettasse, perderebbe prestigio e reputazione presso i suoi alleati. Tutt’al più l’America potrebbe prendere in considerazione un’intesa post-datata, per Taiwan, sulla falsariga di quella siglata per Hong Kong, tra Cina a Regno Unito, parecchi lustri addietro. A condizione, però, che il compromesso venga approvato dalla popolazione di Taiwan. Il che, adesso, appare, come minimo, inverosimile.

La verità è che, oggi, i dossier del pianeta, in particolare della geopolitica, sono così intrecciati, che toccarne uno equivale a toccarne molti altri. Il che vale soprattutto per l’Europa, a cominciare dall’Italia. Fino a poco tempo fa provvedeva la Germania a dare la linea all’Unione europea. Ma l’avvento dei nuovi big asiatici sul palcoscenico mondiale, non ha giovato al rango di Berlino. È balzata davanti agli occhi di tutti la paradossale situazione della Germania: troppo grande per l’Europa, troppo piccola per il mondo. Fuori uno. Anche perché, quando si riprendono le armi, il peso contrattuale dei singoli Stati cambia in base alla consistenza del proprio arsenale. E l’economista Emmanuel Macron, pur essendo un uomo di conti, non di fucili, non perde occasione per lasciarlo intendere. Il suo attivismo, in tutte le principali capitali del globo, è figlio di questa orgogliosa ostentata presunzione: la Francia ha la Bomba (atomica) e l’energia (anch’essa atomica), chi tratta con lei farebbe bene a non dimenticarlo (anche se le proteste di piazza contro il rialzo dell’età pensionabile potrebbero indurre le cancellerie di mezzo mondo a non scommettere un centesimo sulla agitata grandeur di Parigi).

Non è un caso se Macron si muove come una trottola. Va a Pechino insieme con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, ma si presenta, e si atteggia, da “Uomo Forte” dell’intera Europa, oltre che da presidente di una nazione militarmente cospicua. La qualcosa gli serve (sempre a Macron) per oscurare i suoi problemi interni, che tanti colpi stanno assestando alla sua leadership. Anche il presidente francese preme su Xi affinché la Cina prema sulla Russia per siglare in Ucraina perlomeno una tregua. Pur di raggiungere l’obiettivo, Macron cerca di lusingare Xi adoperando un lessico non propriamente filo-americano. Ma l’interlocutore cinese non abbocca facilmente. Anzi, rilancia la palla nel campo avverso.

Operazione che per Xi significa chiedere (cioè pretendere) due cose: il via libera dell’America e dell’intero Occidente all’annessione di Taiwan nella repubblica popolare cinese; e l’ok dell’Europa all’iniziativa Belt and Road Initiative, ossia alla cosiddetta Via della Seta. E qui il puzzle s’ingarbuglia peggio di una matassa multicolore. Uno, perché il via libera o, meglio, la non opposizione di America e Occidente all’annessione di Taiwan sono motivate non solo da ragioni geopolitiche, ma soprattutto, da considerazioni economiche: assecondare Pechino nella conquista di Taiwan, vorrebbe dire mettere in pericolo mezza produzione occidentale, visto che due terzi dei semiconduttori decisivi per le nuove tecnologie provengono dall’isola che fa gola a Xi. Due, perché la Via della Seta sta già, indirettamente, pagando lo scotto del montante primadonnismo cinese. Finora, in Europa, solo l’Italia ha sottoscritto, quattro anni fa, il Memorandum d’intesa con Pechino. Una mossa che non ha di sicuro ricevuto una standing ovation, soprattutto dagli spalti americani, che considerano la via della seta alla stregua di un cavallo di Troia non più mitologico, ma reale, orientato a estendere l’egemonia cinese, dopo la colonizzazione dell’Africa, anche nel Vecchio continente.

“Belt and Road Initiative” (o, appunto, Nuova via della Seta) consiste in un maxi-progetto infrastrutturale-commerciale, che si sviluppa attraverso un percorso terrestre (sei corridoi) e uno marittimo. Era il 2019. L’allora presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, spiegò l’ok al piano con la necessità di riequilibrare la bilancia commerciale con la Cina, sempre più favorevole ai prodotti di quest’ultima. Ma non occorreva aver studiato Niccolò Machiavelli (1469-1527) per chiedersi dove si nascondesse la fregatura di cotanta generosità asiatica. Infatti, apparve sùbito chiaro che i costi politici, prima che economici, a carico del Belpaese si sarebbero manifestati alla prima occasione, alla luce dell’invadenza tecnologica cinese in settori strategici per la sicurezza nazionale. Ecco perché il sì al Memorandum, per giunta pronunciato da un Paese fondatore dell’Unione Europea e socio storico della Nato, sarebbe apparso, anche agli alleati tradizionali, quanto meno eccentrico, per non dire sconcertante. Basti ricordare la vicenda del porto di Taranto, ora nelle mani cinesi e già oggetto nel 2020 di un allarme della Nato, preoccupata per gli investimenti di Pechino nell’infrastruttura pugliese a pochi metri da una base alleata.

Il Memorandum Italia-Cina prevede il rinnovo automatico dell’accordo, a meno che allo scadere del quarto anno, una delle due parti opti per il dietrofront. Giorgia Meloni, a detta di quasi tutti gli osservatori, vorrebbe disdire l’intesa. Ma la decisione è tutt’altro che facile, anche perché risulterebbe tutt’altro che indolore. La Cina non è Andorra, con tutto il rispetto dovuto a questa comunità. Già contro le pentite Australia e Lituania, il governo cinese ha fatto la voce grossa, ricorrendo a misure coercitive anche in campo commerciale, solo in parte attenuate strada facendo. Ma la delicata collocazione internazionale della Penisola potrebbe indurre la Cina, in caso di dissociazione italiana dal Memorandum firmato da Conte, a rappresaglie ancora più dolorose.

Purtroppo, sono i rischi che si corrono quando si agisce senza calcolare le conseguenze di una decisione. Già l’Europa da sola non conta come un secolo fa, per colpa, oggi, della dipendenza militare ed energetica di quasi tutti i suoi Paesi. Figuriamoci quanto conta un singolo Stato europeo smanioso di fare politica estera in proprio: è stato il caso dell’Italia a proposito della nuova via della seta.

Non invidiamo la presidente del Consiglio, prossimamente chiamata a prendere, sul Memorandum, una decisione che più delicata non si può. Immaginiamo che terrà conto di tutti i tasselli del mosaico e che, a costo di deludere i nuovi padroni della Terra, cercherà di non isolare l’Italia in Europa e in Occidente, specie in un mondo in fiamme. Ogni Paese s’identifica con la propria storia. E la storia italiana significa Europa.

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