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Vittorio Colao “ha iniziato la sua attività ministeriale proprio a un evento organizzato da Fratelli d’Italia e siamo ormai in fase conclusiva di questa legislatura; probabilmente concluderà con un evento di Fratelli d’Italia, speriamo sia foriero anche per lui di belle cose”. Con queste parole Alessio Butti, responsabile del dipartimento Media e telecomunicazioni di Fratelli d’Italia, ha introdotto un recente convegno all’Università e-Campus a Novedrate (Como).

Ma non è la prima volta che, durante questa campagna elettorale, il nome del ministro dell’Innovazione tecnologica e transizione digitale, che ha anche le deleghe alle politiche spaziali e aerospaziali, viene tirato in ballo dai partiti. “Al Nazareno c’è chi lo vede come erede di [Mario] Draghi”, aveva scritto Il Foglio raccontando della sua partecipazione a un convegno organizzato dal Partito democratico con la presenza del segretario Enrico Letta.

Quindi è fatta, Colao presidente del Consiglio? Troppo presto. E non soltanto perché di mezzo c’è un passaggio non di poco conto come le elezioni. Difficile dimenticare le tensioni tra il ministro Colao e il collega leghista Giancarlo Giorgetti, titolare dello Sviluppo economico, per la gestione delle trattative con Intel per il piano di investimenti da 80 miliardi di euro per l’Europa (il colosso statunitense ha deciso di realizzare due fabbriche in Germania e il nuovo centro europeo di ricerca e sviluppo in Francia, mentre per l’impianto di packaging che dovrebbe sorgere in Italia sembra si stia aspettando il nuovo governo).

Colao non è solo. Nell’ultima conferenza stampa Draghi ha detto “complimenti, ancora una volta” a Daniele Franco. E riferendosi sempre al ministro dell’Economia ha aggiunto: “Mi auguro che il prossimo governo abbia un ministro bravo come lui perché siamo riusciti – e ora non voglio essere troppo enfatico – a sostenere l’economia italiana in questo anno e mezzo riducendo l’indebitamento come credo non fosse mai avvenuto dalla guerra da oggi, almeno in valore assoluto”. La sponda del presidente del Consiglio dimissionario ce l’ha. Quella dei partiti, chissà.

La riforma voluta da Marta Cartabia, titolare della Giustizia, è al centro del braccio di ferro tra alleati che coinvolge Fratelli d’Italia e Lega.

Anche un altro tecnico come Roberto Cingolani, ministro della Transizione ecologica, è finito negli scontri tra i partiti. Lui a giugno aveva risposto un secco – quasi come quello del presidente Draghi alla domanda sulla sua disponibilità a guidare un nuovo esecutivo – “ovviamente no” alla domanda “Si sente un ministro del Movimento 5 Stelle?”, partito che non gli ha mai risparmiato critiche su diversi temi, a partire dal nucleare. Le politiche energetiche figlie della guerra di Vladimir Putin contro l’Ucraina l’hanno poi riallontanato da Matteo Salvini.

Dal suo canto, il leader della Lega punta al Viminale. Ce la farà? Vedremo. In ogni caso sono pochissime le chance di riconferma della prefetta Luciana Lamorgese al ministero dell’Interno con un governo di centrodestra.

Anche perché per Salvini il no ai tecnici non sembra una questione di nomi, ma di metodo: “È passata l’epoca dei tecnici, noi chiediamo la fiducia agli italiani per la buona politica con la ‘p’ maiuscola. La Lega ha sempre mantenuto gli impegni presi”, ha detto nei giorni scorsi, salvo poi promettere un ambasciatore come ministro degli Esteri.

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