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Fra i tanti interrogativi che pendono sull’uscita di scena di Angela Merkel, uno in particolare pesa come un macigno sul prossimo corso della politica estera europea. Cosa sarà dei rapporti fra Ue e Russia quando la Cancelliera avrà detto Auf wiedersehen?

In verità, nota su twitter Noah Barkin del German Marshall Fund commentando l’ultimo dibattito elettorale fra i candidati Olaf Scholz, Annalena Baerbock e Armin Laschet, “il mondo al di fuori della Germania non esiste in questa elezione”. Nella corsa al voto del 26 settembre la politica estera è quasi un tabù. A cominciare dal dossier più insidioso, le relazioni con i due “rivali sistemici” europei, Cina e Russia: tutto tace. E forse anche questo è un sintomo del cambio di passo epocale aperto dalla fine della parabola Merkel, la cancelliera cresciuta alla scuola di Helmut Kohl che per vent’anni ha preso in mano le redini della politica estera europea.

Per farsi un’idea del vuoto che si apre a Berlino, basta addentrarsi nella nebbia che circonda la strategia dell’Ue post-Merkel per inquadrare i rapporti con il suo più scomodo vicino, la Russia di Vladimir Putin. Fra i leader europei, Merkel è stata l’unica a mantenere sempre un filo diretto con lo “zar”. I due si conoscono, parlano correntemente le rispettive lingue, vengono entrambi dalla Ddr. Una frequentazione di alti e bassi, giunta all’ultima fermata con la visita di Merkel a Mosca lo scorso 20 agosto, fra un bicchiere di vodka e un salmone affumicato offerti al Cremlino.

Il canale con Berlino è rimasto sempre aperto. Anche quando a Bruxelles hanno deciso di chiuderlo, all’indomani dell’invasione russa della Crimea nel 2014, sospendendo gli incontri di vertice con la Piazza rossa. E questo nonostante i tanti incidenti diplomatici susseguitisi negli ultimi anni, dall’attacco hacker dei Servizi di Mosca contro il Bundestag ai casi di spionaggio russo sventati dagli 007 della Bnd. Un equilibrismo che ha causato non pochi attriti con gli Stati Uniti. Fino a spingere un presidente, Donald Trump, a parlare di una Germania “prigioniera della Russia” al summit Nato del 2018.

Oggi alcuni dei nodi che hanno intricato la matassa dei rapporti fra Stati Uniti e Ue sono stati sciolti. Su tutti il Nord Stream II, il maxi-gasdotto di Gazprom che insieme al gemello Nord Stream porterà in Germania dal Mar Baltico 55 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Interrotto dopo la minaccia di sanzioni americane, ha ricevuto infine il via libera dall’amministrazione Biden ed è stato completato la scorsa settimana, con buona pace delle proteste dell’Ucraina, tagliata fuori (non a caso) dalla nuova rotta energetica.

Tanti altri nodi restano da districare. E con una transizione in Germania che lascia in secondo piano la politica estera, notevole ad esempio l’opacità del programma del candidato della Cdu Laschet presentato a fine giugno, il rischio di un limbo è più che concreto.

Complice la zavorra dell’unanimità, l’Ue post-Brexit è raramente riuscita a trovare la quadra quando si parla di Russia. Così il minimo comun denominatore si è ridotto a un rinnovo semestrale delle sanzioni per l’annessione della Crimea, questo sì unanime, peraltro piuttosto blande e con un impatto limitato sull’economia russa.

L’assenza di un canale diretto fra vertici di Russia e Ue, a differenza degli Stati Uniti, ha impedito di tracciare una volta per tutte le “linee rosse” da non varcare, come invece ha fatto Joe Biden con Putin nel summit di Ginevra. Ne è risultata una serie di accelerazioni improvvise e balzi indietro di singoli Paesi membri che, se possibile, ha aggravato la schizofrenia della diplomazia europea.

Come il blitz di Francia, Germania e Austria, a inizio estate, per riportare Putin al tavolo delle trattative a Bruxelles, frenato all’ultimo per la ferrea opposizione della Polonia e dei Paesi baltici. Senza contare la visita a Mosca dell’Alto rappresentante Ue Josep Borrell, a febbraio. Una passeggiata a poche settimane dall’arresto dell’oppositore Alexei Navalny unanimemente ritenuta una debacle diplomatica.  Né confortano gli sviluppi sul fronte più caldo, la guerra nel Donbas. Il semaforo verde al Nord Stream e la disattenzione tedesca verso il “Formato Normandia” (Germania, Francia, Russia, Ucraina) hanno deluso le aspettative del presidente ucraino Vladimir Zelensky.

Da qui riparte oggi l’Ue. Impegnata, dopo il caos in Afghanistan, a sventolare la bandiera di un’“autonomia strategica” dagli Stati Uniti che deve ancora passare la prova dei fatti. Si apre oggi una settimana chiave per capire il nuovo corso a Bruxelles. Due gli eventi da segnare in calendario. Mercoledì, il discorso sullo Stato dell’Unione della presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Venerdì, il voto del Parlamento europeo sul “Rapporto Kubilius”.

È un documento articolato e pieno di retorica, firmato dall’ex primo ministro lituano del Ppe Andrius Kubilius, che definisce la Russia “una cleptocrazia autoritaria stagnante guidata da un presidente-a-vita circondato da una cerchia di oligarchi” e auspica la sua trasformazione in una democrazia. C’è un po’ di wishful thinking, non c’è dubbio. Ma il voto sul rapporto, già approvato in Commissione, sarà un buon termometro di umori e malumori delle famiglie politiche europee nei confronti di Mosca. Una piccola operazione-verità che potrebbe mettere a nudo le tante ambiguità della politica europea, come quella italiana, al cospetto del Cremlino.

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