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Dopo il tour europeo di John Kerry, l’inviato speciale per il clima del presidente Joe Biden, c’è grande attesa per il summit sul clima convocato dal capo della Casa Bianca e in agenda il prossimo 22 aprile. Un evento che è stato al centro anche della telefonata tra Kerry e Roberto Cingolani, ministro per la Transizione ecologica.

Secondo Simone Tagliapietra, ricercatore al Bruegel di Bruxelles e docente all’Università Cattolica di Milano, gli Stati Uniti si “presenteranno annunciando target in linea con l’ambizione europea”.

Quali?

Neutralità climatica entro 2050 e una riduzione del 50% (vicino al 55% europeo) delle emissioni inquinanti entro il 2030. È un’importante opportunità per sviluppare assieme un’azione forte sul clima, fondamentale anche alla luce del fatto che la Cina, per esempio, non sembra così convinta di accelerare il processo di decarbonizzazione nel 2030.

Come mai?

Guardavamo con grande attesa al piano quinquennale presentato la scorsa settimana. Ma non abbiamo trovato quell’ambizione per i prossimi anni che ci si aspettava. La Cina, che non dimentichiamolo è il primo emettitore di gas serra, sembra aver scelto un approccio “pacato” per i prossimi anni rimandando al post 2030. E ciò può rappresentare un ostacolo nei tentativi i rientrare nei limiti dell’innalzamento che ci siamo prefissati.

Che cosa possono fare Unione europea e Stati Uniti per convincere la Cina?

Assieme possono usare la leva commerciale, introducendo in maniera congiunta una carbon border tax. Per farlo serve prima trovare un accordo allineandosi su target simili – e potremmo già farlo al summit di aprile. Poi dobbiamo mettere in piedi politiche per raggiungere gli obiettivi 2030. In Europa abbiamo il pacchetto Fit for 55. Gli Stati Uniti, invece, dovranno lavorare molto di regolazione ambientale per raggiungere i loro obiettivi non potendo fare molto a livello federale sul carbon price. Fatto questo, si potranno introdurre la tassa alla frontiera sul carbonio.

Un tema molto dibattuto a livello europeo di questi tempi è l’autonomia strategica, che poggia anche sul Green Deal. Ma, come lei ha più volte sottolineato (recentemente sul Monde) l’Unione europea deve essere pronta a gestire anche le ripercussioni nelle relazioni con importanti Paesi vicini come Russia e Algeria, e con attori globali come Stati Uniti, Cina e Arabia Saudita.

Molti credono erroneamente puntare a un’autonomia strategica significhi cercare una certa forma di indipendenza. Ma non è così. Significa, invece, gestire l’interdipendenza. Dobbiamo capire come gestirla in un modo da non essere schiavi del mondo esterno.

Come fare?

Con la diversificazione nei settori critici come per esempio quelli dei minerali e dei metalli. Ossia sviluppando supply chain europee. Gli americani fanno lo stesso. Il presidente Biden ha firmato a fine febbraio un executive order per studiare la catena di approvvigionamento americana per i minerali strategici, per esempio.

Anche in questo caso ci sono possibilità di un’intesa transatlantica?

Unione europea e Stati Uniti hanno sfide in comune. Potremmo anche avere soluzioni in comune, sviluppando supply chain europee. Vorrei aggiungere una cosa.

Prego.

Non sono fantasie occidentali. Il governo cinese ha chiesto una valutazione dell’impatto su difesa e rinnovabili in Occidente nel caso in cui decidesse di introdurre limitazioni all’esportazione delle terre rare. Dunque, meglio provvedere.

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