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Come si possono criticare le misure di aiuto e sostegno, se l’Istat conta cinque milioni e mezzo di nuovi poveri, generati dalla recessione indotta dalla pandemia, che vanno ad aggiungersi ai quasi nove milioni già stimati? Si può farlo perché non basta un incendio a suggerire di buttare acqua sul fuoco e, anzi, ci sono posti dove è scritto a chiare lettere che, in caso d’incendio, non si deve usare l’acqua.

Intanto si deve sapere cosa e chi si sta contando. Sono considerati poveri (relativi se sulla base dell’ambiente che immediatamente li circonda, assoluti se in relazione alla capacità di acquisto) quanti non sono in grado di pagare un paniere prestabilito di beni. È chiaro che il paniere contribuisce a determinare il risultato. Essendo triplicato il patrimonio medio delle famiglie italiane, dal 1970 a oggi, essendo giunta al 20% la propensione al risparmio (segno anche di paura), giustamente è cambiato anche il concetto di essenziale. Quindi, per intenderci, un povero odierno è un benestante se paragonato al povero degli anni ’50. Il che non modifica l’importanza dell’allarme, ma chiarisce che certe immagini sono degli spropositi. E, del resto, un Paese ricco in cui il 48.38% della popolazione non versa un centesimo di imposte sui redditi, non avendone di tassabili, è segno che campa anche d’altro e ne nasconde (evadendo) una parte significativa.

Se questo è quel che si conta, vediamo il chi. La povertà è cresciuta nelle fasce d’età giovani, mentre non è cresciuta fra gli anziani. Sicché mandare prima le persone in pensione, regalandogliene una parte, come si fa da lustri e si continua a fare, non diminuisce la povertà e semmai la aumenta. Sgradevole da dirsi, ma difficile da smentirsi. Fra i giovani che finiscono in povertà una quota assai alta è composta da stranieri legittimamente presenti in Italia. Essendo lavoratori meno garantiti è intuitivo che le recessioni li colpiscano per primi e con più forza. Mi guardo bene dal distinguere i poveri per nazionalità di nascita, ma invito chi parla di “italiani” a badare a quel che dice. Per questa fascia di persone la cosa più importante è che il sistema produttivo si rimetta in moto, essendo anche i più elastici nel coglierne le opportunità e accettarne le offerte.

Ci sono poveri veri, non evasori mascherati, anche fra i nativi italiani. Certamente. In molti casi, però, quella povertà si accompagna a forme di devianza e dipendenza: da droga, da alcool, da gioco. Dare loro dei soldi è peggio che buttare acqua su un impianto elettrico che va a fuoco: alimenteranno le dipendenze, non il riscatto. La loro povertà non è il viatico, ma la condanna dell’assistenzialismo.

Che fare, allora? Intanto il doveroso soccorso deve passare per l’uso profittevole della spesa che comporta, evitando imbrogli e speculazioni: molti possono essere interessati ad intascare una prebenda, solo chi ha bisogno accetta di che mangiare, vestirsi, provvedere ai bisogni essenziali. I mesi delle chiusure totali hanno dimostrato come il volontariato funzioni cento volte meglio delle elargizioni alla cieca. Costa di meno, ma anche se costasse lo stesso sarebbe comunque assai più efficace.

C’è, infine, il capitolo straziante, inaccettabile, inammissibile: quello dei bambini poveri. Per un genitore in condizioni di bisogno quella è la cosa più umiliante e dolorosa. Come lo è per qualsiasi persona civile la osservi. A quei bambini va offerta istruzione. Se necessario anche con ospitalità. Il che vale anche per quanti sono finiti fuori dal lavoro: formazione.

Questo è il modo per combattere la povertà costruendo il futuro. Usare gli indici di povertà per alimentare l’assistenzialismo è una doppia immoralità.

Beni e istruzione. Giacalone spiega come combattere la povertà

Non basta un incendio a suggerire di buttare acqua sul fuoco. Pensare di usare gli indici di povertà per alimentare l’assistenzialismo è una doppia immoralità. Il commento di Davide Giacalone

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