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A ogni elezione presidenziale americana, più si avvicina la fatidica data della consultazione e più i toni si fanno accesi, al limite – a momenti anche oltre — dell’offesa personale. Ce ne sorprendiamo ogni volta come se fosse la prima; così come ci meravigliamo della repentina ricomposizione nel post-elezioni di fratture che sembravano solo poche ore prima insanabili. È una delle principali forze della democrazia statunitense. Forse più riconducibile alla antropologia politica americana che a complesse alchimie istituzionali. Non serve essere esperti degli Stati Uniti per notare che a queste escalation dello scontro, alimentate volentieri dai media stessi, gli spettatori assistono con un coinvolgimento controllato. Come a un incontro di wrestling (non a caso sport popolare oltre oceano) dove, nonostante la violenza messa in scena sul ring, sugli spalti non scoppia mai la rissa tra i tifosi dei vari lottatori.

Eppure oggi di nuovo abbiamo l’impressione che i toni di queste elezioni 2020 siano di una violenza verbale senza precedenti, dovuta sia alla retorica sopra le righe di Donald Trump che alla drammatizzazione portata dalla coincidente crisi pandemica del Covid-19. A occhio, lo scontro con Joe Biden sembra avere superato per intensità quello già molto pesante con Hillary Clinton del 2016 (“la peggiore campagna elettorale di sempre”, si disse all’epoca).

Qualunque tema entri nell’arena elettorale ne esce ancora più estremizzato rispetto alle ultime presidenziali. L’unica, sorprendente, eccezione in controtendenza sembra riguardare il Russiagate. Nonostante le premesse (Biden è uomo della vecchia guardia, come i temi di cui si fa portatore) l’argomento sembra essersi sgonfiato rispetto a quattro anni fa, almeno nel campo democratico (Trump lo ha riesumato ma in modalità spin off, nel tentativo di provare che è stata una manovra ordita contro di lui).

Ci hanno provato nella primavera 2020 alcuni tra i falchi democratici, come Victoria Nuland e Susan Rice, a ridare vita al Russiagate duro e puro ma, come scritto a suo tempo su Formiche. Il tutto è sembrato un passaggio tattico volto a promuovere la candidatura della stessa Rice a vice di Biden. Tanto che, dopo la scelta di Kamala Harris, il tema è di nuovo passato in secondo ordine, almeno nella sua accezione originaria più grave. Ovvero l’accusa rivolta a Mosca di volere condizionare il risultato elettorale americano.

Se un argomento potenzialmente così di impatto (lo abbiamo visto nello scontro Trump-Hillary) ha oggi perso vigore retorico, significa che si è indebolito il suo fondamento di logica politica. Non è chiaro infatti quale sarebbe il risultato sperato da Mosca nelle nuove presidenziali americane giacché il Cremlino giudica entrambi i candidati difficili da gestire per i propri interessi in politica estera.

Nel caso di Trump, se le presidenziali del 2016 e il Russiagate si erano basati sul teorema che egli, neofito della politica, fosse manipolato (quando non ricattato) dai russi e che questo ne avrebbe fatto una marionetta nelle mani del Cremlino, i quattro anni passati alla Casa Bianca hanno dimostrato una realtà radicalmente diversa. La riduzione dell’attenzione americana su Ucraina e Siria (ovviamente positiva per il Cremlino) non ha compensato una lunga serie di atti di politica estera ostili alla Russia.

Dall’inasprimento delle sanzioni contro Mosca, all’attacco frontale al progetto Nord Stream, al gravissimo smantellamento del trattato Intermediate-Range Nuclear Forces del 1987 (sopravvissuto dai tempi di Michail Gorbačëv e Ronald Reagan), allo scontro diretto con Iran, Cuba e, soprattutto, Cina. Alla sistematica delegittimazione del livello multilaterale dell’Onu, terreno su cui Mosca, dai tempi di Yevgeny Primakov ha sempre fatto molto affidamento per rafforzare la sua attività diplomatica. Senza dimenticare che l’arrivo di Trump alla Casa Bianca ha portato a un cambio generalizzato della squadra di governo nella politica estera (si tratta di centinaia di posizioni), con l’arrivo di persone del tutto nuove, sconosciute, molte provenienti dal settore privato, per lo più senza esperienza e impreparate sui singoli file. Scelte per criteri di affidabilità più che per competenza. A una diplomazia di carriera molto tecnica come quella russa che si basa sui rapporti personali maturati e punta sulla continuità (negli ultimi 30 anni ha avuto in tutto solo quattro ministri degli Affari esteri, incluso l’attuale Sergej Lavrov), questo ha rappresentato un salto nel buio e una chiara difficoltà operativa.

Per quanto riguarda le reticenze di Mosca su Biden, basta rifarsi al giudizio tranchant espresso nel messaggio video del 7 ottobre da Vladimir Putin, dove esprime irritazione per la classica “retorica antirussa” del candidato democratico che richiama al clima da nuova guerra fredda che ha caratterizzato la amministrazione di Barack Obama. Anche se nei corridoi del ministero degli Affari esteri a Mosca si fa notare che un Biden presidente riproporrebbe una politica americana sì antirussa ma secondo direttrici pragmatiche e prevedibili che lo renderebbero un devil you know con cui sarebbe più facile trovare un accordo, rispetto alla imponderabile azione di Trump.

Con Mosca che, scottata dal 2016 quando fu colta di sorpresa dalla vittoria di Trump, ora sembra prepararsi a entrambi i possibili esiti elettorali, come conciliare questo quadro con l’indiscrezione del Washington Post che riferisce di un rapporto segreto della Cia che accuserebbe il Cremlino di tramare contro Biden?

Ammesso che sia notizia vera e non una mossa del deep state a Washington per indebolire Trump, verrebbe da dire che per l’ennesima volta si cade nell’errore di caricare delle attività “istituzionali” di uno Stato avverso, soprattutto se superpotenza, di significati e obiettivi specifici; anche quando non sono automatici. Il mainstream di Stato (termine elegante per dire Propaganda 2.0), ovvero il tentativo di sottolineare paradossi e incongruenze (politiche, sociali, economiche) nel campo avverso per demitizzarlo e indebolirlo agli occhi dell’opinione pubblica interna ed internazionale, non ha bisogno di altre finalità politiche nell’immediato per attivarsi e giustificarsi.

È simile a quanto avviene con l’attività di intelligence che viene portata avanti di default sugli avversari a prescindere dall’uso che si farà (o non si farà) delle informazioni riservate raccolte; utili a prescindere.

Che Mosca investa, ora come e più che in passato, risorse mediatiche per sottolineare le contraddizioni del versante statunitense e che svolga una intensa attività di intelligence sui principali attori statunitensi, tanto più se presidenti attuali o futuri, è normale. Quasi una banale verità storica. La vera novità sta nel fatto che etichettare tutto questo come Russiagate oggi paga elettoralmente meno che nelle presidenziali del 2016.

Pellicciari spiega perché Trump e Biden non parlano più di Russiagate

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