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Sabato 11 gennaio 2020 si sono svolte le consultazioni elettorali a Taiwan per eleggere il nuovo presidente. Mentre i conteggi sono ancora in corso, le prime proiezioni confermano il trend dei sondaggi degli ultimi mesi con la presidente Tsai Ing-wen ampiamente in vantaggio su Han Kuo-yu mentre il controllo del parlamento è ancora incerto. 19 milioni di elettori sono stati chiamati alle urne per scegliere sia il Presidente sia il nuovo Parlamento.

I due principali candidati erano Tsai Ing-wen, presidente uscente del Partito Democratico Progressista (DPP) e Han Kuo-yu, sindaco di Kaohsiung del Kuomintang (KMT), il partito nazionalista. Il terzo candidato, James Soong, già in passato candidato presidente proprio con il KMT ha conquistato una piccola percentuale dei voti, intorno al 6 per cento. Voti che potrebbero provenire da elettori del KMT delusi dalla scelta di Han com candidato. Le elezioni hanno anche mostrato la maturità della democrazia confuciana di Taiwan, sia lo svolgimento delle consultazioni sia le modalità della campagna elettorale hanno saputo coniugare la libertà d’espressione alla necessità di salvaguardare gli elettori dalla minaccia della pressione mediatica dalla Repubblica Popolare cinese. Un equilibrio complesso, tra il mantenimento degli ideali di libera espressione e la necessità di difendere il discorso pubblico da interferenze straniere, realizzato attraverso una complessa serie di strumenti pubblici e privati che sembra aver funzionato in maniera eccellente.

Appena un anno fa nessuno avrebbe scommesso su una rielezione di Tsai Ing-wen ma l’approccio della Repubblica Popolare cinese ha influito in maniera determinante. Il ruolo dell’ingombrante vicino è stato decisivo nella rimonta elettorale di Tsai, nel gennaio del 2019 Xi Jinping ha tenuto un discorso dai toni accesi nei confronti di Taiwan, menzionando addirittura l’opzione di una riunificazione forzata. Nei mesi successivi l’ondata delle proteste di Hong Kong hanno colpito fortemente l’opinione pubblica taiwanese. La soluzione “one country, two system” era stata proposta alla fine degli anni 70 da Deng Xiaoping proprio per Taiwan e qualche anno dopo venne usata per gestire la transizione dell’ex colonia britannica. Il fallimento del “one country, two system” è ora evidente a tutti i taiwanesi. Se l’economia di Hong Kong aveva garantito benessere e mobilità sociale a tutti gli abitanti della città stato, ormai da qualche anno gli investimenti cinesi hanno di fatto creato una bolla immobiliare che ha inciso in maniera determinante sulle aspettative degli hongkonghesi. La situazione, in particolare per le giovani generazioni, è sempre più difficile e molti sono costretti a lasciare Hong Kong per andare a cercare lavori ben remunerati in Cina. Mentre le libertà civili si restringono ogni anno in maniera lenta ma inesorabile.

Il rapporto con Pechino e divenuto il principale argomento della campagna elettorale. Il candidato del KMT Han Kuo-yu, dopo l’inaspettato successo delle elezioni amministrative dello scorso anno, aveva inizialmente mantenuto un profilo basso rispetto al rapporto con la Cina. Il messaggio di Han era sostanzialmente legato ad un approccio pragmatico, senza mai menzionare progetti di riunificazione ma sottolineando la necessità di un rinnovato rapporto con Pechino per far ripartire la stagnante economia taiwanese. Quando le proteste di Hong Kong erano iniziate da ormai un mese il candidato del KMT aveva affermato di non sapere nulla di quanto stava avvenendo nella città stato. Nelle settimane successive ha cercato di correggere la rotta, specificando la sua estraneità a qualsiasi tendenza di riunificazione con la Cina. Ma l’onda emotiva delle proteste di Hong Kong aveva già turbato la popolazione taiwanese. La popolazione taiwanese poi negli ultimi decenni ha proseguito in quel percorso di ricostruzione dell’identità nazionale avviato alla metà degli anni 80. Ormai l’identità e la cultura taiwanese è percepita dalla stragrande maggioranza dei taiwanesi come essenziale. Una condizione che pesa enormemente sulla proiezione elettorale del KMT, ancora troppo legato al suo ingombrante passato.

La figura di Tsai Ing-wen era stata fortemente criticata negli ultimi due anni del suo mandato, spesso in maniera ingiustificata. La presidente ha dovuto affrontare delicate questione come l’inevitabile riforma delle pensioni e si è dovuta confrontare con una economia in crescita ma ben lontana dagli indici a due cifre del decennio passato. Tsai Ing-wen è apparsa come una scelta sicura, il rinnovato rapporto con Washington e il supporto degli Stati Uniti nei confronti della sua amministrazione è stato un’altro elemento decisivo. Han Kuo-yu  ha attratto, con il suo stile non convenzionale, degli elettori indecisi o delusi dai tradizionali candidati ma non ha saputo convincere in pieno l’elettorato del KMT. La capacità di Han di poter gestire una situazione delicata come la politica delle Cross Strait Relation è apparsa alla maggior parte dei votanti come insufficiente. Tsai Ing-wen non ha mai generato una forte empatia nella popolazione ma viene percepita come una scelta affidabile e le sue doti diplomatiche sono innegabili. Doti necessarie per poter governare una nazione come Taiwan, avamposto di libertà e democrazia in Asia ma anche eccezionalità nel diritto internazionale tenuta in piedi da compromessi semantici come la One China Policy. Una condizione eccezionale appunto, che non permette estemporanee dichiarazione come quelle talvolta rilasciate da Han Kuo-yu. La scelta di confermare Tsai Ing-wen è legata proprio a questa lettura: affidabilità, supporto statunitense e mantenimento della distanza con Pechino anche a costo di qualche sacrificio in campo economico.

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Di Stefano Pelaggi

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