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“Le scelte di Donald Trump in Iraq rientrano nel suo concetto di ‘America first’ mentre dal punto di vista italiano credo che non dovremmo mai lasciare l’Iraq”. Il generale Mario Arpino, già capo di Stato maggiore della Difesa, non sembra preoccupato dall’aumento delle tensioni tra Stati Uniti e Iran.

Gli americani hanno evacuato il personale diplomatico non indispensabile da Baghdad e da Erbil, confermando la presenza di alcune migliaia di militari. Anche Germania e Olanda stanno ritirando gli istruttori militari. Questa evoluzione a che cosa può portare?

La prospettiva è forse più semplice da analizzare che gli effetti a medio termine. In prospettiva non succederà niente. Come ha fatto in altre situazioni, Donald Trump mostra la faccia feroce, muove 120mila uomini, ma nessuno sembra destinato a operazioni di combattimento. Si tratta di intimidazioni. Ha già fatto altre evacuazioni, come in Libia dove gli americani furono i primi. E’ una dimostrazione delle molte anime che compongono l’amministrazione Trump, non vedo un filo di continuità rigoroso, da militare direi che non vedo un filo di carattere gerarchico in tutta la struttura.

Queste intimidazioni però influiscono sui rapporti con i Paesi di quell’area. Anche l’appoggio dato al generale Khalifa Haftar in Libia è sembrato un collocazione a sostegno dei “nemici” dell’Iran.

Dobbiamo leggere tutto nei termini elettorali di Trump e tenere sempre in mente i vari significati che può avere “America first”: il presidente americano vede solo attraverso questi occhiali e forse non l’abbiamo capito bene nel suo significato più preciso che è un significato definitivo. In questo concetto rientrano le aree di influenza sciita e, come in Iraq, si vedrà sicuramente qualcosa anche in Libano.

L’Italia è impegnata in Iraq nella missione “Prima Parthica”, soprattutto come addestramento delle forze irachene e curde, e nella missione Unifil in Libano. Possono aumentare i rischi?

Non credo che aumentino né in Iraq né in Libano. Se invece parliamo di utilità, è diversa in termini di posizionamento internazionale. In Libano non è di carattere pratico né economico, ma di immagine: l’Unifil fa interposizione finché non succede niente perché, se dovessero sorgere dei problemi, l’Onu non potrebbe combattere. In Iraq, invece, dobbiamo restare a tutti i costi, ancora più che in Afghanistan.

Qual è il vantaggio?

Fui molto critico quando lasciammo la regione del Dhi Qar poco dopo la strage di Nassirya. Avevamo fatto tanti accordi e stavamo per intraprendere iniziative nell’ambito civile, quando ce ne andammo concentrandoci sull’Afghanistan, improduttivo per noi. In Iraq eravamo seduti su un lago di petrolio e altri ci si sono buttati sopra, perfino i cinesi.

Dunque, per interessi geopolitici, militari ed economici ci fa comodo restare in Iraq?

Le cose che stiamo facendo lì sono importanti, molto più che in Libano dove restiamo finché andrà tutto bene, e stiamo facendo una bella figura, ma se succedesse qualcosa l’Unifil sparirebbe.

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