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Forse si dovrebbe salutare Bashar al Assad, raccontare l’uomo che sembra essere uscito di scena, con troppi anni di ritardo, a Damasco. La macchina della morte che aveva ereditato dal padre e fatto funzionare a pieno vapore per anni è uno degli orrori che il Novecento ha creato e che il nuovo millennio ha visto gonfiarsi nel nome dei progetti totalitari e che non vogliono lasciarci. Gli Assad hanno governato così: terrore, disegno totalitario e azioni tese ogni giorno a creare un urto sanguinoso di una comunità con le altre per ricattarle tutte.

Forse si dovrebbe scrivere che la macchina della morte di Assad ha anche creato i mostri che la sfidavano per legittimarsi e andare a tutto vapore: quindi si dovrebbe, forse, descrivere come questo sia accaduto e come sia stato tollerato. Eppure sembra più opportuno raccontare che questo sarebbe potuto accadere diversamente, senza i gruppi armati che oggi lo stanno assediando nel suo palazzo delle tenebre grazie al sostegno militare di Ankara. Sarebbe potuto accadere ben tredici anni fa.

Se allora Assad fosse stato invitato a farsi da parte, avrebbero vinto i giovani della Primavera, che avevano osato sfidarlo senza armi, senza progetti settari. Ma i grandi della politica, che irridevano i sognatori della Primavera, spiegavano che il loro desiderio era impossibile. Obama lo disse in un’intervista a The Atlantic. La Russia distrusse tutto e con l’Iran si prese le macerie della Siria. Qualcuno parlò di liberazione russo-iraniana. Ora il loro fantoccio sanguinario si scioglie. Senza i mercenari del gruppo Wagner e senza i miliziani di Hezbollah riassorbiti nel disastro libanese, era chiaro da tempo che sarebbe andata così.

Ma anche immaginando che non ci rassegni mai, forse almeno da mesi i leader arabi avrebbero potuto chiamare Putin, il santo protettore di questo regime che ha espulso più della metà degli abitanti del suo Paese o all’estero o in campi di prigionia sotto forma di campi profughi, e prospettare una via d’uscita: assicurare a Putin che le sue basi aeree e navali sarebbero state mantenute, se avesse accompagnato Assad alla porta. Non lo hanno fatto. Lo ha quasi fatto Erdogan, da solo, con i suoi progetti, le sue intenzioni. Ma da solo. Con il sostegno arabo sarebbe stato diverso. E infatti Assad ha sperato ancora, ha resistito al pressing interessato turco, ha detto di no a Putin ed è andato avanti.

Ma perché gli arabi hanno seguitato a sostenerlo? Per loro tutto è sopportabile? Non c’è dignità da tutelare? Se avessero agito per tempo, avessero chiesto una transizione ordinata, convincendo il leader del Cremlino con le citate garanzie, avrebbero potuto immaginare una transizione, pilotarla, guidarla. Una transizione ordinata voleva dire dar vita a un comitato di salvezza nazionale che unisse esponenti di tutte le comunità siriane, e cioè gli alawiti di Assad, i sunniti massacrati e perseguitati da Assad, i cristiani impauriti, i crudi divisi e che temono i turchi, i drusi che si oppongono da mesi alle angherie del regime, gli altri gruppi sciiti che temono gli insorti in armi come li temono i curdi; tutti costoro insieme a pezzi di burocrazia del presente regime avrebbero potuto salvare il Paese e allontanare il clan presidenziale.

Ma se tutto è tollerabile, se nulla scuote il senso del possibile dei leader arabi, ci si trova sul carro perdente e con il cuore arabo, la Siria, che rischia di andare in frantumi.

La vittoria dei giovani della Primavera avrebbe segnato un’era nuova per un mondo arabo ancora privo di rivoluzione industriale, di rivoluzione dei Lumi, di riforma del discorso religioso. Le leadership del Golfo hanno con grandi difficoltà chiuso le porte in faccia ai fanatici che avevano creato loro stessi per legittimarsi, ma lo fanno limitandosi a un’occidentalizzazione che fa fare i concerti rock, i grandi eventi sportivi, ma non pone ancora le basi di monarchie costituzionali, che inseriscano nella storia partiti demo-islamici, diritti sociali. Serviva avviare un processo di riforma graduale, e la partita siriana poteva essere un primo passo. Non nell’illusione di risolvere tutto con una bella e improvvisa elezione politica, ma con un processo di costruzione del consenso comunitario. Un federalismo assistito, accompagnato da fuori.

Ora Assad lascia le macerie di cui si è nutrito: lui, Bashar, dal 2000, suo padre dal 1970. La follia di una Repubblica ereditaria esce di scena, resta solo la fotocopia nord coreana. Ma cosa arriva? Non lo sappiamo. E’ evidente però che in Siria qualcuno possa temere. I leader arabi che hanno alimentato l’estremismo religioso per resistere al khomeinismo e trovare da loro legittimazione hanno capito, nel 2001, che si erano fatti la corda che li stava strangolando. Ma dopo averlo capito hanno cercato una strada diversa senza saper cambiare i propri comportamenti, la propria “politica”. Certo, non si cambia condotta dalla mattina alla sera, ma ci sono dei limiti, e Assad è uno di questi. Un’aberrazione del Novecento malato ha resistito fino al 2024 e nessuno ha voluto capire che questo avrebbe danneggiato chiunque l’avrebbe toccata.

La Siria appare sola con i fantasmi sparsi nelle sue strade da un mostro vorace. Ha alimentato altri mostri nel corso del tempo, per dire “io sono il male minore”. Ora le carte sembra averle Erdogan. Ma sono le comunità quelle che bisognava togliere dalle mani del mostro e dei suoi prodotti naturali. Come anni fa ancora oggi è chiarissimo che per rendere questa giornata luminosa c’è una sola strada: è il federalismo la parola che salverebbe la Siria, per non farne un buco nero. Assad lo ha costruito con cieca determinazione, sostenuto da chi voleva usarlo per i suoi calcoli. Il rischio di una frantumazione i leader arabi avrebbero fatto bene a evitarlo e forse possano ancora farlo: invece di coccolare Assad nel nome di quella stabilità che spesso è sinonimo di sabbie mobili.

Assad è caduto. E poi? Lo scenario di Cristiano

Ora Assad lascia le macerie di cui si è nutrito: lui, Bashar, dal 2000, suo padre dal 1970. La follia di una Repubblica ereditaria esce di scena, resta solo la fotocopia nord coreana. Ma cosa arriva? Non lo sappiamo. L’analisi di Riccardo Cristiano

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