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I bombardamenti russo-siriani sull’enclave ribelle di Idlib (Siria centro-occidentale) continuano: testimoni e fonti di vario genere dicono che finora quello di sabato è stato il giorno peggiore (ma il peggio deve ancora venire).

Un paio di dozzine di barrel bomb sono state lanciate sulle aree periferiche meridionali dell’hinterland cittadino, sono i barili esplosivi (talvolta arricchiti al cloro) che gli elicotteri governativi sganciano senza distinzione dei bersagli sulle aree in mano ai nemici. Sono invece sessantotto gli airstrike russi, dato corroborato anche dalla BBC.

L’ondata più dura dei bombardamenti governativi è arrivata esattamente il giorno dopo del vertice trilaterale di Teheran, dove Russia, Iran e Turchia (tre paesi direttamente coinvolti nell’offensiva, i primi due dalla parte del regime, l’altro con posizioni sfumate ma più vicine ai ribelli) hanno fatto il punto sulla situazione e sul futuro del paese, nell’ambito del processo teoricamente-negoziale che stanno conducendo attraverso riunioni con le parti siriani compiacenti ad Astana in modo parallelo e alternativo all’Onu.

L’incontro di altissimo livello (erano presenti tutti e tre i presidenti dei paesi convocati) si è chiuso, come previsto, con un pugno di mosche: la Turchia ha chiesto un improbabile cessate il fuoco immediato, ma Iran e Russia hanno risposto che “sarebbe bello” (parole di Vladimir Putin) però è impossibile ci sono i terroristi da sconfiggere, e nessuno può garantire per loro.

La Russia difende la propria linea: l’operazione serve a spazzare via i ribelli, ossia i terroristi, da Idlib. Considerano questo l’obiettivo formale dell’intera missione siriana iniziata nel settembre di tre anni fa (in realtà dietro ci sono questioni geopolitiche su cui Mosca è molto più interessata, sebbene eliminare potenziali foreign fighters russofoni di ritorno non è un aspetto secondario per il Cremlino). Gli iraniani seguono, e con meno diplomazia parlano apertamente della necessità di battere i ribelli, chiunque siano, per far vincere il regime alleato e preservare i loro interessi sul Siria.

A Idlib la situazione è molto complicata: ci sono circa tre milioni di persone, molte di queste sfollate da altre aree della Siria precedentemente in mano alle opposizioni su cui i governativi sono avanzati. La proposta di Damasco è stata sempre questa: rifugiatevi a Idlib, lasciate le abitazioni di Aleppo, o Quneitra, o Homs, eccetera, così si eviterà un bagno di sangue, perché noi non ci fermeremo davanti a niente. Ma là starete al sicuro. Ora però quei civili si trovano chiusi in una specie di riserva indiana, con i lealisti alle porte che mandano lo stesso tetro messaggio (non ci fermeremo), e non c’è via di uscita.

“Idlib si è trasformato in un microcosmo, in cui tutte le forze che hanno dato vita e sono state partorite dalla traumatica rivolta siriana lotteranno in un battaglia catastrofica il cui prezzo, come al solito, sarà pagato da civili innocenti”, ha scritto in un commento sul New York Times Kareem Shaheen, giornalista che vive in Egitto e ha seguito la guerra siriana per il Guardian.

In mezzo alle decine di migliaia di civili, i combattenti: molti di loro sono uomini di milizie radicali, o che hanno subito complessi processi di radicalizzazione nel corso del conflitto. Sono i terroristi veri, al di là della propaganda russa. Ci sono moltissimi qaedisti, tanto che è stato lo stesso rappresentate americano presso la Coalizione anti-Is, l’obamiano Brett McGurk, a parlare di Idlib come del più grande rifugio di al Qaeda dopo quello afghano post-9/11.

“Idlib è un grosso problema”, ha ammesso l’americano lo scorso mese, però Washington, attraverso il capo della Forze armate Joseph Dunford, ha spinto gli attori statali sulla scena (rivolgendosi soprattutto alla Russia, considerata mossiere del processo di Astana e della situazione siriana) a evitare campagne militari classiche. Potrebbero finire in una crisi umanitaria, per morti e profughi, e potrebbero essere sostituite da azioni anti-terrorismo moderne e tecnologiche, con cui andare a cacciare i qaedisti con un’operazione simile a quella che ha disarticolato lo Stato islamico (un’enorme, continua e martellante, campagna aerea, che ha colpito i leader baghdadisti fin dentro le loro automobili, evitando al massimo i danni collaterali e le vittime civili).

Siamo coinvolti in dialoghi di routine tra dipartimenti e Casa Bianca, avremmo opzioni, “ma non sono sicuro che ci sia qualcosa che possa fermarli”, ha aggiunto il generale Dunford riferendosi all’azione con cui i governativi con i loro sponsor, più che sconfiggere i terroristi, si potrebbero garantire una vittoria decisiva per le sorti del conflitto e il futuro assadista del paese. I giorni scorsi sono sbarcati sulle coste siriane le unità speciali dei marines russi, erano attività nell’ambito di un’esercitazione (la più grande mai tenuta dai russi su quella fascia del Mediterraneo), ma il messaggio di dissuasione era chiaro: non accettiamo interferenze sui nostri piani, abbiamo il  controllo della Siria.

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