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Se una telefonata può allungare la vita, come diceva Massimo Lopez in un vecchio spot pubblicitario, quella di Angela Merkel a Giuseppe Conte, almeno al momento, ha evitato di innescare una crisi senza precedenti. La proposta di ricacciare indietro i clandestini di mezza Europa, per confinarli nei Paesi del primo ingresso, quindi soprattutto Grecia ed Italia, è stata riposta nel cassetto. Non sapremo dire per quanto, visto i rapporti non certo facili della stessa Cancelliera con la sua base bavarese. Ma, almeno per il momento, è stata evitato di aggiungere al danno la beffa. Eppure, nonostante tutto, rimane lo sconcerto. La sensazione cioè che uno dei principi non detti di gran parte dell’Europa sia riassumibile nella frase “beggar my neighbor” (peggio per il mio vicino). Fu l’elemento che caratterizzò la grande crisi degli anni ’30, con le disastrose successive conseguenze.

Se questo è il quadro, è bene che l’Italia rifletta meglio sulle azioni da intraprendere, inserendo la questione dei migranti in un vero e proprio “piano” che tenga, innanzitutto conto degli interessi nazionali, ma che, al tempo stesso, sia rispettoso delle complesse regole internazionali. Da applicare con il massimo del rigore. Il punto di partenza è la consapevolezza di un’esigenza difficilmente eludibile. L’Italia ha bisogno di immigrati. Dai calcoli del ministero dell’economia, affinché il sistema previdenziale sia in equilibrio, con una crescita massima della relativa spesa che, nel 2040 supererà seppure di poco il 16 per cento del Pil, è necessario “un flusso netto di immigrati che si attesta mediamente su un valore medio annuo di circa 152 mila unità”. Da oggi fino al terminale considerato. Per allora, quindi, il totale dei nuovi immigrati dovrebbe essere pari a circa 3 milioni di persone. O meglio di lavoratori.

Dovrà, infatti, trattarsi di persone munite di un regolare contratto in grado di pagare le tasse ed i relativi contributi. Nulla a che vedere, quindi, con quel che capita ogni giorno. Bande di sbandati che occupa le periferie delle città, dediti, quando va bene, alla ricerca di una semplice elemosina. Si tratta, secondo le stime, di circa 500 mila persone. Molte andranno rimpatriate. Ma tutti sappiamo quanto sia difficile realizzare questo obiettivo. Si pone pertanto il problema di un loro possibile inserimento nei normali circuiti del mercato del lavoro, dopo la loro indispensabile formazione. La conseguenza immediata di questo modo di pensare è che, nei prossimi anni, non sarà possibile accettare altra immigrazione clandestina. I flussi potranno essere riorganizzati solo dopo aver esaurito quest’esercito di riserva.

Che fare allora? Vietare l’attracco alle navi delle ong. È una prima indispensabile misura. Se battono bandiera straniera si rivolgano ai loro Paesi d’origine. Se navigano in condizioni precarie e sono quindi costrette a seguire la rotta verso il porto più vicino, lo sbarco può essere autorizzato, ma il naviglio va posto sotto sequestro. Il caso della Lifeline. Ma, da sola, questa condizione, benché necessaria non è sufficiente. Come ha dimostrato il caso dell’Acquarius. Negli stessi giorni in cui la nave, scortata dalle vedette della Capitaneria di porto italiana, raggiungeva Valencia, in Italia sbarcavano 1.500 migranti raccolti dai guardiacoste italiane. Una contraddizione evidente, che va risolta.

Le leggi del mare, ratificate da numerosi accordi internazionali, hanno delineato le zone di rispetto delle proprie acque marine. Quelle territoriali si estendono per 12 o 13 miglia a seconda dei casi. Esiste poi un’area molto più vasta – denominata Sar (Search and Rescue) – costantemente monitorata, per l’eventuale soccorso dei natanti in difficolta. Nel Mediterraneo, nelle acque prospicienti la Sicilia e l’arcipelago delle isole Pelagie (Lampedusa), si sovrappongono due Sar: maltese ed italiana. La prima ha una dimensione molto più vasta. Talmente estesa da rendere impossibile un intervento tempestivo da parte delle relative autorità. Un evidente paradosso. Malta, per motivi di prestigio, ne accampa la titolarità. Ma poi confessa, candidamente, di non essere in grado di garantire l’assistenza, nel proprio territorio, agli eventuali naufraghi, sottratti al loro terribile destino. Un problema da affrontare e risolvere, con i normali canali diplomatici, richiedendo, se necessario, l’intervento dell’Europa.

I confini della Sar sono a circa 100 miglia dalle coste della Sicilia. Ed altrettanto dalla Libia. Esiste pertanto un enorme braccio di mare che non può essere controllato. In passato la stessa Libia aveva fatto richiesta di istituire una propria Sar. Ma poi quella domanda era stata revocata. Cento miglia sono una distanza tale che non può essere affrontata con quei barconi, le cui immagini hanno fatto il giro del mondo. Questo spiega perché le navi delle ong. stazionino oltre i confini della Sar, per trasformarsi in veri e propri taxi degli emigranti. Ma c’è di più. L’obbligo di assistenza e d’intervento scatta soltanto nel caso in cui si tratti di soccorrere imbarcazioni idonee alla navigazione secondo gli standard internazionali, con requisiti tassativi previsti dalla convenzione SOLAS (Safety of life at sea). Principio ribadito dall’Agenzia europea per la gestione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri (PE-CONS 35/14 del 30 aprile 2014). Ne deriva pertanto che per l’Italia non esiste alcun obbligo giuridico per intervenire oltre le zone di propria competenza. Andare oltre può essere il segno di una grande generosità. Ma se l’intervento diventa sistematico si rischia solo di favorire il traffico di carne umana.

Tunisia

Vi spiego perché l’Italia ha bisogno di immigrati (regolari)

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