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In questi ultimi mesi, Harley-Davidson e Jack Daniel’s hanno destato scalpore con la loro scelta di ritirare pubblicamente il supporto alle cause LGBTQ+, abbandonando programmi interni di Diversity, Equity, and Inclusion (DEI). Questo cambio di rotta ha sollevato un dibattito sulla direzione delle aziende in un contesto globale che, da un lato, spinge verso inclusività e responsabilità sociale, ma dall’altro evidenzia un crescente backlash da parte di consumatori e movimenti politici conservatori. Queste decisioni riflettono una tensione sempre più forte tra il mantenimento di una base di clienti tradizionalisti e l’impegno verso l’inclusione. Nonostante alcune aziende scelgano di allontanarsi temporaneamente da programmi DEI per evitare conflitti immediati, questa strategia potrebbe rivelarsi miope nel lungo termine.

Le imprese che scelgono di disimpegnarsi dai temi legati alla diversità rischiano di alienare non solo una fetta crescente di consumatori sensibili a queste questioni, ma anche investitori sempre più attenti ai criteri ESG (Environmental, Social, Governance). Nel caso di Harley-Davidson, l’azienda ha interrotto la sua partecipazione al Corporate Equality Index e sciolto il suo dipartimento DEI dopo critiche da parte di figure pubbliche conservatrici. Jack Daniel’s ha seguito una linea simile, eliminando i propri programmi di diversità in risposta a pressioni mediatiche e politiche. Queste scelte non rappresentano casi isolati, ma riflettono una spaccatura in ambito aziendale su come affrontare temi di inclusività senza perdere quote di mercato o incorrere in critiche da parte di consumatori conservatori.

Tuttavia, la DEI non può essere vista come una questione di facciata, ma come un vero e proprio imperativo aziendale. Le normative europee, come la CSRD e la CS3D, richiedono una trasparenza crescente da parte delle imprese sulle loro performance in ambito di diritti umani e sostenibilità. Non impegnarsi attivamente in queste aree significa rischiare di non essere più competitivi in un mercato sempre più globalizzato. Nonostante le possibili motivazioni economiche alla base delle decisioni di Harley-Davidson e Jack Daniel’s, le nuove generazioni di consumatori, come i Millennials e la Gen Z, tendono a preferire brand che adottano un approccio progressista e inclusivo.

Per le nuove generazioni, la DEI è un valore fondamentale. La mancata attenzione a questi temi non solo danneggia la reputazione dell’azienda, ma rischia anche di comprometterne la capacità di attrarre nuovi talenti e di innovare. Un altro aspetto cruciale è il legame tra politiche di inclusione e performance aziendale. Un ambiente di lavoro che abbraccia la diversità e promuove l’inclusione non solo migliora la produttività, ma stimola anche l’innovazione. Le aziende che investono in DEI stanno investendo nel loro futuro: attraggono talenti migliori, creano un clima di lavoro positivo e contribuiscono a una società più equa. I dati ce lo confermano, e delineano uno scenario in cui le aziende non potranno fare a meno di adeguarsi a politiche di inclusione, rispetto dei diritti umani, contrasto alle discriminazioni. Per tanti motivi molto pragmatici.

Primo, la competitività: le aziende con politiche DEI forti ottengono migliori risultati finanziari e di performance. Ad esempio, in Italia, l’Istituto Europeo per la Parità di Genere prevede che il Pil aumenterebbe del 12% se il tasso di occupazione femminile raggiungesse quello maschile entro il 2050. A livello globale, la Banca Mondiale stima che la parità di genere nel lavoro potrebbe far crescere il PIL del 20%. E questo è un esempio sulla parità di genere ma potremmo parlare anche di orientamento sessuale, minoranze etniche e disabilità in azienda. Il sempre citato osservatorio McKinsey dice che le aziende con team diversificati hanno il 25% in più di probabilità di ottenere una redditività superiore alla media, Boston Consulting Group afferma che i team eterogenei generano maggiori ricavi da servizi e prodotti innovativi, Cloverpop afferma che i team diversificati prendono decisioni migliori. La “diversità cognitiva” contribuisce a evitare il pensiero di gruppo, che soffoca la creatività e porta a idee stagnanti.

Secondo, la credibilità: le aziende che investono in DEI guadagnano la fiducia del mercato e delle comunità e sappiamo quanto conta oggi rimanere competitivi e soprattutto credibili agli occhi dei propri stakeholder, inclusi i dipendenti. Deloitte afferma che le aziende inclusive hanno tassi di turnover più bassi e dipendenti più coinvolti. C’è anche un tema molto forte, legato a questo, di fidelizzazione dei clienti. Le aziende che abbracciano policy DEI hanno il 45% in più di probabilità di acquisire una maggiore quota di mercato ci dice il Center for Talent Innovation. E uno studio di PwC ha rilevato che il 75% dei consumatori è più propenso a supportare i marchi che dimostrano un impegno in questo ambito rispetto ai competitor.

Terzo, c’è il quadro normativo: come abbiamo accennato prima, le aziende sono sempre più chiamate a conformarsi a leggi che richiedono inclusività e rispetto dei diritti umani. Rimanere tagliati fuori da questo cambiamento è pericoloso. Si pensi anche alle normative sempre più stringenti sull’accessibilità digitale. Le aziende, soprattutto quelle che operano nel mercato europeo, devono adeguarsi a queste normative, vedendo i costi non come un peso, ma come un investimento a lungo termine che favorisce la resilienza e l’adattabilità in un contesto globale diversificato. Di fronte a un mondo sempre più complesso e connesso, le imprese non possono più permettersi di trattare la DEI come una scelta opzionale. La vera sfida è come bilanciare la pressione da parte di gruppi conservatori con la crescente domanda di giustizia sociale.

Aziende più inclusive. Una mossa strategica per crescere

Di Emilia Blanchetti

Le imprese che scelgono di disimpegnarsi dai temi legati alla diversità rischiano di alienare non solo una fetta crescente di consumatori sensibili a queste questioni, ma anche investitori sempre più attenti ai criteri Esg (Environmental, Social, Governance). Il commento di Emilia Blanchetti, senior consultant Amapola

 

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