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Ha senso rileggere oggi un testo concepito quasi quattro secoli fa, in un’epoca su cui sono stati versati fiumi d’inchiostro? Ha senso, soprattutto se il suo autore si chiama Armand-Jean du Plessis, duca di Richelieu. Si dice che per meglio capire il presente e scrutare il futuro bisogna salire sulle spalle dei giganti del passato. Il cardinale francese è stato un gigante del suo tempo, artefice del passaggio dallo Stato rinascimentale allo Stato assoluto. E il suo tempo in qualche misura allude al nostro, dove un neonazionalismo arrembante si contrappone a ogni idea di Europa come “comunità di destino”. È dunque plausibile posare di nuovo lo sguardo sul Testamento politico di Richelieu (Aragno, a cura di Alessandro Piazzi). Se Voltaire dubitava della sua autenticità, per Montesquieu era “pieno di fuoco, di vita; pieno d’una certa veemenza nelle frasi, d’una certa genialità naturale, d’una grande precisione. […] Vi si vede piuttosto l’uomo che lo scrittore, e son persuaso che coloro i quali hanno redatto l’opera vi hanno contribuito piuttosto con l’ordinamento che col contenuto” (Riflessioni e pensieri inediti).

Il cinico doppiogiochista ritratto da Alexandre Dumas nei Tre moschettieri (1844) nasce a Parigi il 9 settembre 1585, terzogenito di Suzanne de La Porte e di François du Plessis. Dopo la scomparsa del padre (1590), la madre, con l’aiuto di suo fratello Amador, un giurista con discrete possibilità finanziarie, avvia il figlio agli studi presso il prestigioso collegio di Navarra. Poi, in ossequio alle consuetudini delle famiglie con un quarto di nobiltà, per Armand-Jean si aprono le porte dell’accademia militare diretta da Pluvinel, dove si formavano i futuri gentiluomini. La decisione del fratello maggiore Alphonse, assalito da un improvviso furore mistico, di farsi monaco certosino lo costringe a indossare gli abiti religiosi. Solo così, infatti, avrebbe potuto conservare il vescovado di Luçon, ricevuto dai suoi avi per i servizi resi alla Corona. Terminati gli studi teologici alla Sorbona, Armand-Jean si reca a Roma per chiedere una dispensa papale che gli permettesse la nomina a vescovo prima dell’età canonica (23 anni e mezzo). Paolo V è subito colpito dal giovane prete, che sfoggiava una formidabile capacità dialettica. Il 17 aprile 1607, appena ventiduenne, viene consacrato vescovo. L’abate Bremond lo descriverà così: “Teme l’inferno, ama la teologia, non difetta completamente di curiosità per le cose di Dio; ma in ultima analisi il suo regno è di questo mondo”.

Negli Stati Generali convocati nel 1614, Richelieu viene eletto deputato e portavoce dell’assemblea. Entra nelle grazie del “partito dei devoti” (cattolico e filospagnolo) e di Maria de’ Medici (madre dell’ancora minorenne Luigi XIII), di cui diviene consigliere privato. Nel novembre del 1616, su proposta di Concino Concini, il favorito della sua protettrice, viene nominato ministro degli “Affaires étrangères et de la guerre”. Il 24 aprile 1617 l’assassinio di Concini, istigato dal sovrano per liberarsi dalla tutela materna, interrompe bruscamente la sua esperienza di governo. Segue un periodo di isolamento ad Avignone, dove si dedica agli studi teologici. Richiamato a Parigi con l’incarico di comporre il dissidio tra la regina madre e il figlio, riconquista la stima di Luigi XIII mettendo in campo tutte le sue doti di abilissimo negoziatore (Trattato di Angers, agosto 1620). Il 5 settembre 1622 viene compensato con la berretta cardinalizia. Da allora la sua ascesa ai vertici del potere diventa inarrestabile, e viene suggellata dall’ingresso nel Consiglio del re (aprile 1624).

Richelieu deve subito affrontare una questione spinosa: il controllo della Valtellina, da cui dipendevano i rifornimenti e le comunicazioni tra i territori dell’Impero e la Spagna. Anteponendo con spregiudicatezza la ragion di Stato a quella della fede, il neoporporato appoggia i principi luterani in rivolta contro l’imperatore Ferdinando II, con lo scopo di indebolire gli Asburgo nell’Italia settentrionale. La sua scelta provoca la vivace protesta della fazione cattolica più intransigente, guidata da Maria de’ Medici, da Anna d’Austria e da Gastone d’Orléans, rispettivamente sposa e fratello germano di Luigi XIII. La reazione di Richelieu è spietata. Tra il 1626 e il 1627 vengono giustiziati alcuni tra i nomi più altisonanti dell’aristocrazia transalpina, per aver ordito complotti contro il re o per aver violato le leggi dello Stato.

L’anno successivo è quello della resa dei conti con gli ugonotti, asserragliati nella fortezza di La Rochelle: dopo un lungo assedio condotto personalmente da Richelieu, sono costretti a una resa incondizionata. Nominato “principal ministre d’État”, il cardinale gode ormai della piena fiducia del sovrano. Nella “journée des dupes” (la “giornata degli ingannati”, 10 novembre 1630) gli oppositori interni vengono sgominati: il guardasigilli Michel de Marillac è arrestato e condotto al castello di Châteadun, il maresciallo Bassompierre imprigionato alla Bastiglia, Maria de’ Medici esiliata a Compiègne, mentre Gastone d’Orléans si rifugia nel ducato di Lorena. Questa operazione permette a Richelieu di rilanciare il suo progetto di accentramento statale, di allearsi con Gustavo Adolfo di Svezia e di aprire formalmente le ostilità contro la Spagna (1635). Da scontro confessionale, la guerra dei Trent’anni (1618-1648) si trasformava in lotta dichiarata per l’egemonia continentale.

Il 4 dicembre 1642, divorato da una cancrena al braccio e prostrato dalla tubercolosi polmonare, Richelieu muore. Cinque mesi dopo, a sud del piccolo centro di Rocroi avviene lo scontro decisivo tra l’esercito spagnolo di Filippo IV e le truppe francesi comandate dal giovane duca d’Enghien. La vittoria del figlio del principe di Condé, e nipote acquisito del cardinale, è schiacciante. I terribili “tercios” (fanti armati di archibugi) vengono annientati. La potenza militare di Madrid è distrutta. Ma il vero vincitore della battaglia è proprio Richelieu, contro la cui volontà si infrange il sogno di dominio europeo degli Asburgo.

Nella lettera a Luigi XIII allegata al Testamento, confessa che “è più soddisfacente essere protagonisti e fornire materia alla storia, piuttosto che darle forma”. Preferisce cioè fare la storia e non raccontarla. E quando diventa storico di se stesso, è mosso dall’assillo di non vedere disperso quello che considerava il risultato più prezioso diciotto anni di governo: il consolidamento del primato regio, garante di una sintesi tra gli interessi divergenti e le spinte centrifughe che scuotevano ciclicamente la società francese. Se Jean Bodin (1529-1596) e Jean de Silhon (1596-1667) aveva preparato la strada sul piano della teoria giuridica, Richelieu l’aveva percorsa fino in fondo sul piano effettuale. Solo più tardi si accenderà una serrata e mai conclusa disputa sulla legittimità dello Stato “legibus solutus”. È comunque dalle riforme di Richelieu, in primis dall’unificazione del sistema fiscale, che germoglieranno i semi di una inedita mobilità sociale, dove conteranno ancora ma sempre meno gli Ordini, le corporazioni, i parlamenti; e di una vera e propria burocrazia pubblica, alla quale si accederà non più solo in base all’appartenenza a un ceto.

Nella seconda parte della sua narrazione, l’onnipotente ministro non nasconde le difficoltà e le resistenze incontrate: intrighi, congiure, tradimenti, tentativi di “coup d’État”. Del resto, anche prima del suo insediamento al potere la Francia ne era stata infestata. Enrico III di Valois (1551-1589) era stato ferito mortalmente dal coltello avvelenato del frate predicatore Jacques Clément. Enrico IV di Navarra (1553-1610), capo indiscusso degli ugonotti, dopo la sua abiura era stato ucciso da Ravaillac, un fanatico converso (incaricato degli affari economici) dei Cistercensi. Nella notte di San Bartolomeo (23-24 agosto 1572), i calvinisti erano stati massacrati. Enrico di Guisa (1550-1588), esponente di punta della Lega cattolica e tra i promotori di quell’eccidio, era stato trucidato su ordine dello stesso Enrico III.

Ecco perché, rivolgendosi direttamente al suo “riverito Sire” nella premessa del Testamento (Succinta narrazione) Richelieu afferma: “Quando Vostra Maestà decise di concedermi l’ingresso nel suo Consiglio e la fiducia per la conduzione degli affari, gli Ugonotti dividevano lo Stato con Ella, i Grandi si comportavano come se non fossero stati sudditi e i più potenti governatori delle province agivano come Sovrani nelle loro cariche. Il cattivo esempio degli uni e degli altri era così dannoso per questo Regno che le compagnie più regolate venivano influenzate e, in alcuni casi, riducevano, per quanto potevano, la Vostra legittima autorità. […] Le alleanze con paesi stranieri erano trascurate, gli interessi privati preferiti a quelli pubblici”. Il suo monito è chiaro: se il re non si mostrerà risoluto nell’amministrazione della Francia, essa ricadrà nel caos civile e religioso; se la monarchia non saprà difendere con fermezza le proprie prerogative, l’unità del paese -ancora fragile e contestata- andrà in frantumi. Non sarà così.

Rileggendo il Testamento politico di Richelieu

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