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Esistono paesi, anche dell’Occidente sviluppato e democratico, in cui l’antisemitismo sta nuovamente emergendo, e dove gli individui di fede ebraica vivono nella paura. Di riflesso, ciò porta a credere che l’odio che si diffonde in rete, spesso di carattere antisemita, sia al contrario una realtà soltanto marginale, riservata a soggetti particolari. E dei quali, di conseguenza, possiamo anche non interessarci. “Non è così”, ha invece reagito nel corso della Conferenza degli Stati sull’antisemitismo – che si è svolta ieri 29 gennaio alla Farnesina – Robert Singer, amministratore delegato e vicepresidente del World Jewish Congress, ovvero il “braccio diplomatico del popolo ebraico”, come loro stessi si definiscono, fondato nel ’36 come federazione delle comunità e delle organizzazioni ebraiche, la cui sede centrale è oggi a New York, ma con uffici in tutto il mondo, anche all’Onu.

Il World Jewish Congress ha infatti individuato, in una ricerca, qual è, in numeri, la pericolosità del fenomeno. Sappiamo per esempio che soltanto nel 2016 sono stati registrati 380 mila post antisemiti. E che ogni 83 secondi viene pubblicato un post con queste caratteristiche, dato che peraltro non fa riferimento a gruppi legati ad attività private. Sono utenti singoli che esternano il loro odio in autonomia e libertà, se tale si può definire, e probabilmente influenzati a loro volta da un contenuto già pubblicato contro la categoria degli ebrei. Di fatto, però, ciò che resta è che ogni minuto, in media, qualcuno prepara un tweet antisemita, un’azione di odio. “È certo che i vostri figli ne hanno già visualizzati sui vostri feed, o magari li vedono regolarmente. Mentre oggi nessuno dovrebbe mai cercare questo tipo di odio”, ha annotato Singer. Il problema è quindi la propagazione incontrollata dei contenuti in rete, in cui rientrano espressioni rancorose, istanze di negazionismo, incitazione all’odio e alla violenza contro gli ebrei. Una media giornaliera di circa 108 post negazionisti sulle principali piattaforme. Senza contare l’umorismo nero, o la simbologia anti-ebraica. Che portano, in un secondo momento, a violenza tangibile.

“Si riconosce il fatto che il problema esiste, nei contenuti pubblicati c’è questa caratteristica”, ha notato con amarezza Singer. Il World Jewish Congress, tuttavia, ha ammesso che quando si parla di questi episodi le aziende rispondono in maniera rapida. Però “le media companies devono prendere le loro responsabilità e chiamare l’antisemitismo con il loro nome. Perché dobbiamo far sopravvivere la memoria dell’olocausto, e non dobbiamo più essere vittime”, ha segnalato il Ceo. Ma come contrastare e punire per legge i responsabili? O meglio, è possibile individuare un nemico? E i social media, quale responsabilità hanno su questa tematica? Sharon Nazarion, vicepresidente iraniana dell’Anti-Defamation League, Ong internazionale ebraica con sede negli Stati Uniti, la cui mission è combattere pregiudizi e antisemitismo facendo informazione e promuovendo educazione e attività legali, specialmente contro la diffamazione, ha chiarito che c’è spesso un incrocio di messaggi tra gruppi estremisti di varia natura. “Mesi fa abbiamo poi presentato un rapporto che spiega come i suprematisti bianchi ottengano finanziamenti: principalmente utilizzando il crowdfunding sui social media”, ha illustrato.

Ovvero il metodo più aperto e inclusivo che esista. “L’anno scorso si sono registrati 12 milioni di post antisemiti su Youtube. Così abbiamo creato linee guida apposite per le società, e nel 2013 abbiamo avuto una svolta, siamo diventati membri del consiglio di Twitter. Abbiamo da lì lanciato un’alleanza tecnologica con le aziende della Silicon Valley, ci siamo impegnati con politici e con le varie companies per contrastare il cyberhate, ma vediamo comunque che il livello di attacchi aumenta, costantemente”. Come prima cosa si è cercato di individuare, almeno in via teorica, quali sono gli approcci condivisi dalle maggiori società di social media. “Lo abbiamo fatto unendo la nostra esperienza alla tecnologia, e alla possibilità di usare molti dati”. Anche se “antisemitismo e hatespeech non vengono accettati su Facebook”, ha ribattuto Aibhinn Kelleher, policy manager di Facebook per l’Europa, il Medio Oriente e l’Africa, ovvero del team che redige le norme per poter iscriversi e comunicare sul celebre social network. “Noi vogliamo cercare di fare il miglior lavoro. Quando troviamo esempi di linguaggio di odio ci confrontiamo con i nostri legali, ma è vero che ci sono alcuni gruppi particolarmente colpiti”.

L’approccio da seguire deve tuttavia basarsi su una comprensione completa del contesto locale e culturale, ha spiegato. “Noi usiamo strumenti di intelligenza artificiale per una quota limitata di contenuti, come quelli sessuali. In altri casi condividiamo hashtag con altre aziende, per esempio quando ci sono video da rimuovere”. Il rapporto del social di Mark Zuckerberg con l’IA è “già buono”, ha aggiunto Kelleher. “Ma ci auguriamo un maggiore sviluppo in futuro”, nonostante l’hatespeech sia “un fenomeno complesso, e non c’è una macchina che possa debellarlo. Ma siamo pronti e aperti a collaborare su questi temi. Il nostro Ceo ha detto che è importante che se ne continui a parlare a voce alta, perché i nostri figli non siano più coinvolti da pregiudizi”. Di fatto però, il dato che emerge, come ha fatto notare il moderatore del dibattito, il giornalista e conduttore Rai Gerardo Greco, è che l’intelligenza artificiale ha forti limiti. “Non c’è solo un attore che decide cosa entra e cosa non entra nella piattaforma”, ha chiarito Giorgia Abeltino (nella foto), responsabile delle relazioni istituzionali per il Google Cultural Institute.

“Parliamo di Ong, di gruppi culturali, di responsabilità delle piattaforme che portano alla decisione di eliminare alcuni contenuti. Sembra facile ma richiede molta cooperazione. Youtube sta cercando di migliorare il sistema di allerta, e i partner possono segnalare quello che per noi è un contenuto dannoso. Il 75% dei contenuti segnalati sono immediatamente rimossi”. Un tema fondamentale è però quello dell’educazione. Se ne parla infatti spesso come di una delle principali, forse la principale, soluzione a ogni forma di intolleranza, di odio, o di maleducazione, per l’appunto. Ma cosa significa educare, specialmente quando si parla di un grande soggetto culturale come Google, con tutta l’influenza e il potere di indirizzare i navigatori della rete, che tendono alla quasi totalità della popolazione, che detiene? “Spiegare alle persone, soprattutto ai giovani, che l’odio non è solo legato allo stare sui social media”, ha spiegato Abeltino. “Bisogna educare riguardo all’importanza dell’odio online e a come contrastarlo. Se si trovano narrative violente, dobbiamo fare in modo che offrano contenuti positivi, producendo contro-narrative, anche finanziandole. Perché fanno parte dell’educazione e dell’istruzione”.

Si parla cioè dei cosiddetti influencer della rete, ovvero i nuovi opinion leader, creatori di cultura condivisa e quindi di modi di vedere e di intendere il mondo. Perché i social media sono questo: generatori di cultura, di codici, di scambi di contenuti culturali e di interazioni linguistiche tra individui. “I giovani su Youtube seguono coloro che lo usano per creare video, persone che hanno migliaia di fan. Se queste cominciano a parlare in modo positivo, si avrà un messaggio analogo verso chi li segue. Certo, ciò, da solo, non può risolvere tutto, ma in molti casi si è dimostrato efficace”. E “la nostra società dà massima priorità a questo tema nella sua agenda”, ha concluso Abeltino. Poi, in alternativa, ci sono anche le maniere forti. Ovvero l’intervento della polizia postale, termine già di per sé di difficile traduzione letteraria in inglese. Anche perché “in un’epoca come la nostra, dominata dalla rete, il quadro giuridico è troppo poco flessibile per una materia che si muove a una velocità non coniugabile con i tempi giuridici”, ha subito messo in luce Nunzia Ciardi, da alcune settimane nuovo capo della Polizia Postale italiana.

“Quando parliamo di queste realtà, dove i messaggi si muovono a velocità fino a pochi anni fa imprevedibili, con meccanismi di replicazione che consentono a un contenuto falso di giungere a migliaia di persone, capiamo che la sostanza della disinformazione è cambiata”, ha commentato. Quando poi si dice che è sempre stata così, che la disinformazione esiste da che mondo è mondo, il capo della Polizia Postale ci tiene a precisare che non è affatto vero. Che più che di propaganda, oggi, si parla di “propagazione”. “La repressione dei reati è assolutamente sacrosanta ma non basta, occorre uno sforzo complessivo culturale da parte di tutti. Non si tratta di scaricare il tema su un terreno vago e scivoloso. Noi, come polizia del cybercrime, ci siamo assunti un compito che non è proprio nel nostro patrimonio genetico. Ma andiamo comunque nelle scuole, facendo attività di prevenzione, insegnando ai ragazzi a stare in rete, e dicendo loro che la banalità del male passa anche attraverso un like o a una condivisione data senza pensare”. La direzione è quindi quella di “un’alleanza”. Perché oggi, almeno su questi temi, “non ha più senso ragionare in termini di paesi e stati: internet ha sbriciolato ogni confine nazionale”.

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