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C’era da aspettarselo. È appena iniziato l’anno e sulla stampa già si sprecano i ricordi e le celebrazioni del Sessantotto, di cui quest’anno ricorre il cinquantenario. Le celebrazioni c’erano già state dieci, venti, trenta anni fa: potevano non esserci ora che l’anniversario è a cifra tonda?

Sia beninteso, il Sessantotto è uno di quei concetti generali che servono per indicare un momento e un movimento storico, un simbolo o una metafora se si preferisce. Ciò che esso indica non è circoscrivibile in uno specifico anno solare (iniziò molto prima e in Italia la sua scia si è protratta per anni e anni) e non è nemmeno tutto sommato riducibile facilmente a un minimo comune denominatore. Eppure, è giusto che se ne parli, al di fuori si spera, almeno questa volta, dalla retorica trionfalistica di chi in quel tempo era giovane e sognava cambiamenti velleitari e vaghi che oggi, che è classe dirigente incanutita e spesso cinica, rimpiange con acre nostalgia.

Il mio discorso poi è ancora più sdrucciolevole, volendomi concentrare in questa breve nota su un qualcosa che è generico e concreto al tempo stessa: la mentalità. Il Sessantotto ha cambiato il nostro modo di vedere le cose, o almeno quello di una parte rilevante e influente dell’opinione pubblica? E in che senso, positivo o negativo? A mio avviso, dubbi non ce ne possono essere: il Sessantotto ci ha cambiato tutti ed è stato non un moto di progresso, ma un tassello fondamentale di quel mosaico di fattori che segnano ancora oggi la crisi italiana.

I suoi addentellati vivono nella cultura diffusa e mainstream, ma anche nella cultura politica: certe posizioni del M5S, ad esempio, e soprattutto il suo affermarsi a livello popolare, sono intellegibili a partire dal modo di pensare sostanzialmente illiberale instillatoci, in maniera più o meno inconscia, dai sessantottini. Col Sessantotto, in effetti, ciò che è stato scardinato o eroso, in un’orgia democraticistica, è quel principio di autorità, che è poi connesso a quello di autorevolezza, su cui una società liberale, come ogni altra società, non può non fondarsi (la differenza fra essa e le altre consiste solo nella contendibilità del potere e nella “circolazione” delle élite).

Certo, l’autorità e l’autorevolezza vanno conquistate sul campo, ma fu proprio il terreno di gioco che il Sessantotto mise in discussione, considerandolo già perimetrato dal fantomatico “sistema borghese”. In questo modo, esso minò i valori della tradizione non in nome della modernità ma di utopismi e “società perfette” che avrebbero inevitabilmente distrutto la libertà individuale. Nel suo anelito comunitario, di questa il Sessantotto poco si interessò, preferendo parlare di “liberazione”, cioè di qualcosa il cui contenuto inevitabilmente sarebbe stato deciso da qualche centrale dall’alto o “avanguardia proletaria”.

Il Sessantotto minò poi soprattutto la cultura classica, definita “di classe”, in nome di un ideale di partecipazione astratto e velleitario (si pensi a un Don Milani). Anche quando il linguaggio e gli stili di vita si adattarono in seguito al mondo, questo sostrato mentale ha operato nelle menti e ha influenzato i giudizi e le azioni di chi visse quel periodo. “Uno vale uno” era l’ideale delle assemblee che funestarono in quegli anni la vita universitaria. E che poi, negli anni Settanta, si riversarono in una pedagogia democraticista (i cosiddetti “decreti delegati”) che erose poco alla volta il sistema della formazione e dell’istruzione. C’è di più. Il Sessantotto in Italia non fu combattuto dal potere, ma assimilato. Non fu (solo) per opportunismo, ma anche perché esso trovò terreno fertile in quella che già allora era, in qualche modo, “l’ideologia italiana”.

In molti vivevano la democrazia “borghese”, cioè liberale, come un semplice punto di passaggio verso qualcosa di più avanzato: parlavano di una “rivoluzione tradita”, la Resistenza, che volevano continuare e portare a compimento per instaurare finalmente una “democrazia di classe”. Lungi dall’abbandonare il “mito fondativo” della nostra Repubblica, cioè l’antifascismo, i sessantottini cominciarono a vedere “fascisti” dappertutto, non accorgendosi che tale era in primo luogo la loro mentalità. Non confidavano più nel Pci, certo, che consideravano ormai compromesso e “imborghesito”, e nemmeno nell’Unione Sovietica, il cui mito era stato sostituito da quello di altri favoleggiati lidi (a cominciare dalla Cina di Mao Tse-Tung). Ma, lungi dall’abbandonare la corsa, pensavano semplicemente che fossero i cavalli scelti da cambiare. Questo humus “rivoluzionario” circolava in tutta la società, non solo nelle cosiddette forze extraparlamentari, che il Sessantotto produsse a grappolo. E ciò spiega, ad esempio, sia il ritardo con cui in molti presero coscienza del “terrorismo rosso” sia anche la posizione di chi a sinistra parlava di “compagni che sbagliano” o con sprezzo affermava di essere “né con lo Stato né con le Br”.

Saranno gli anni Ottanta, col cosiddetto “riflusso”, a spezzare questo circolo vizioso. Solo in parte. La mentalità sessantottina della “democrazia partecipata”, unita casomai ai dettami del “politicamente corretto”, è ancora ben radicata nella nostra società: soprattutto nei media, nelle scuole e nelle università, nelle case editrici e ovunque ancora oggi si crei “egemonia”.

Il Sessantotto, l'anno che cambiò per sempre la nostra mentalità

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