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L’Unione Europea, ad esempio, ha compilato una lista di prodotti made in Usa (dal bourbon, alle moto, ai jeans di marca ed agli stessi mirtilli) che subirebbero dazi di ritorsione al momento in cui quelli di Trump entrassero in vigore. Misure ancora più pesanti sono state predisposte dalla Cina (il bersaglio principale del protezionismo della Casa Bianca): sfiderebbero la supremazia americana nel digitale invadendo il mercato mondiale con prodotti e servizi modellati su quelli di cui l’industria americana è convinta di avere inoppugnabili brevetti. I prodotti e servizi made in China sarebbero solo leggermente taroccati rispetto a quelli di cui le imprese americane high tech penserebbero di avere l’esclusiva grazie ai loro brevetti. Controversie legali in materia riguardano differenti tribunali e possono durare anni; nel contempo, i mercati (specialmente quello Usa) verrebbero inondati di prodotti e servizi di origine cinese, spiazzando le aziende high tech americane. Le quali non guarderanno con favore i candidati più vicini alla Casa Bianca alle non più tante lontane elezioni di mid term (6 novembre prossimo).

Già nel 1815 David Ricardo aveva documentato che chi di protezionismo ferisce, di protezionismo perisce. Nel secondo dopoguerra, una scuola nutrita di economisti dello sviluppo (dal gruppo della Commissione Economica delle Nazioni Unite per l’America Latina, al Nobel Gunnard Myrdal, al raffinato Staffan Linder, alla scuola che portò nel 1964 alla creazione della Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo) precisò che in caso di scambio ineguale tra Paesi ad alto e Paesi a basso reddito il protezionismo ha una giustificazione se temporaneo e se riguarda alcuni prodotti specifici (ad esempio, industrie nascenti). Difficile elaborare una giustificazione per la siderurgica, la metallurgia e la meccanica americana come industrie nascenti; sono piuttosto industrie morenti come io stesso le definii oltre cinquanta anni fa in un libro sul Kennedy Round edito da Il Mulino. Lo stesso Premio Nobel Paul Krugman, i cui lavori teorici hanno per molti aspetti rivalutato alcuni aspetti del protezionismo, ha pubblicato il 18 marzo, sui quotidiani (in tutto il mondo) che appartengono al gruppo project syndacate, un lungo articolo per documentare come i dazi di Trump siano un errore totale.

Il vero colpo, però, è stato inferto dall’Economic Policy Institute EPI di Washington, il centro di analisi finanziato dai sindacati della grande industria americana, quella della rust belt che più rivendica le misure protezionistiche. In un rapporto pubblicato il 12 marzo, a firma del capo economista dell’EPI Lawrence Mishel, si documenta che nel manifatturiero della rust belt i salari orari superano del 13% la media dell’impiego privato negli Stati Uniti. Mishel lamenta l’erosione rispetto agli anni Ottanta quando il premio salariale del manifatturiero pesante della rust belt sfiorava il 17% rispetto alla media del settore privato. Lo studio riconosce, però, che sono migliorati diversi benefits in materia assicurativa e previdenziale. Il documento, se portato all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) nella sua funzione giurisdizionale, assicura una netta condanna ai dazi di Trump. Un vero e proprio boomerang.

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I dazi di Trump. Un boomerang

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