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La Cina mette nel mirino le risorse di energia di una vasta rete di alleati esteri, con un rilievo crescente per gli Stati Uniti: la Tigre asiatica alimenta la sua crescita con quantità sempre più massicce di petrolio e gas (è il primo importatore mondiale) e ha bisogno di fonti sicure e diversificate. Lo ha detto di recente in un’intervista con Bloomberg Wang Yilin, presidente del colosso cinese dell’energia Cnpc (China National Petroleum Corp.): il gruppo giocherà un ruolo chiave nella strategia di Pechino volta a ridurre la dipendenza della Cina dalle importazioni di energia siglando alleanze con partner stranieri per collaborare allo sviluppo dei loro asset, compresi quelli degli Usa nel settore shale. Già da febbraio la Cina è il primo compratore per il greggio degli Usa (ha sorpassato il Canada); secondo Wood Mackenzie le forniture americane hanno rappresentato quasi il 7% delle importazioni cinesi di LNG ed è una quota destinata ad aumentare.

DAL BELT AND ROAD ALL’AMERICA

Il presidente americano Donald Trump si è accordato ad aprile con il presidente cinese Xi Jinping per potenziare le vendite in Cina della texana Cheniere Energy, unico esportatore statunitense finora autorizzato a portare LNG nel paese asiatico. Secondo gli accordi, la Cina comprerà più prodotti Usa ma anche investirà con i partner americani nello sviluppo di infrastrutture negli Stati Uniti che servono a processare il gas. Ai margini del recente Belt and Road Forum di Pechino (l’incontro che la Cina organizza per coinvolgere governi e aziende nel suo progetto per collegare Europa, Asia e Africa tramite investimenti e infrastrutture) Wang di Cnpc ha ribadito l’importanza dei rapporti con gli Usa: al Forum, infatti, non solo Cnpc ha siglato una dozzina di accordi con colossi internazionali dell’energia (Saudi Arabian Oil, State Oil co. dell’Azerbaijan, Gazprom…) per un valore complessivo di 20 miliardi di dollari, ma ha sottolineato che la strategia cinese per l’energia va oltre la prospettiva del Belt and Road per guardare all’America.

“Visto che la domanda di petrolio e gas della Cina cresce costantemente, dobbiamo far miglior uso delle risorse di partner stranieri”, ha detto Wang. “Gli Usa hanno vaste riserve e, in ottica di diversificazione delle fonti di energia per la Cina, gli Stati Uniti saranno certamente un partner sempre più importante. Considereremo alleanze in settori come lo sviluppo congiunto di impianti per l’LNG e di infrastrutture per il trasporto del gas”. La Cina ha importato a marzo la cifra-record di 9,17 milioni di barili di greggio al giorno (erano 8,2 milioni a febbraio; l’incremento è del 15% nel primo trimestre 2017) ed è diventata il più grande importatore di energia al mondo, prima degli Stati Uniti che, però, grazie allo shale oil riescono ad avere quote importanti anche da esportare (1 milioni di barili al giorno a febbraio). 

GAS NATURALE NEL FUTURO

I colossi petroliferi cinesi hanno tirato i remi in barca in fatto di investimenti in risposta, tra altri fattori, al calo del prezzo del petrolio e alla virata del mercato verso il gas naturale. Nel 2017 per la prima volta da quattro anni i big cinesi stanno aumentando gli investimenti di capitale ma la produzione di greggio nei primi quattro mesi è comunque in calo del 6,1% rispetto allo stesso periodo del 2016, mentre le importazioni sono in aumento del 12%. La produzione cinese di gas naturale è invece in forte crescita: +15% ad aprile rispetto a un anno prima (dati del National Bureau of Statistics cinese elaborati da Reuters). Il futuro è dunque nel gas naturale perché il prezzo del greggio a 50 dollari al barile o meno resta “insostenibile”, ha ribadito Wang, aggiungendo che “non è realistico ritenere che il prezzo salirà molto nel breve termine. Oggi l’andamento globale dell’offerta e della domanda sta attraversando una fase di transizione; nel 2017 il prezzo si manterrà sui 50 dollari, poi ci sarà una lenta ripresa tra 2018 e 2020 ma i prezzi non torneranno ai livelli del 2014, quando un barile era quotato 100 dollari”, ha dichiarato Wang.

PETROLIO, A CHI CONVIENE?

A questo riguardo, Bloomberg ha pubblicato un’analisi basata su dati del Fondo monetario internazionale che suggerisce quale prezzo del barile servirebbe ai paesi produttori per rientrare nel bilancio 2017: i prezzi “ottimali” variano di molto, perché se alla Russia bastano 40 dollari, al Kuwait 49, all’Iran 51 e all’Iraq 54, gli Emirati Arabi Uniti hanno bisogno di un prezzo sui 67 dollari al barile e l’Arabia Saudita di più di 83 dollari, fino ad arrivare al caso limite (legato a una situazione molto complessa ampiamente descritta da formiche.net) del Venezuela con 216 dollari al barile. Per i produttori africani si passa dai quasi 65 dollari al barile per l’Algeria, ai 71 della Libia fino ai 127 della Nigeria. In questo panorama instabile e variegato, la Cina vede nel gas naturale e negli investimenti negli Usa un punto fermo.

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