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Il dibattito politico italiano è stato dominato per molti giorni dalla spinosa questione dello Ius Soli. Di fatto gli schieramenti parlamentari sono divisi in due: da un lato tutto il centrosinistra, inclusa l’area di centro, a favore; dall’altro tutto il centrodestra e il M5S, assolutamente contro.
Il tempismo di aprire una discussione in merito, tra un attentato e l’altro, da parte della maggioranza non è certo stato felice, se non nella misura in cui si desiderava trasformare l’iniziativa in un motore di aggregazione elettorale.
Il contenuto del problema è invece molto serio e complesso. Innanzitutto perché chiama in causa categorie metapolitiche fondamentali, quali l’idea di cittadinanza e i motivi della nostra appartenenza nazionale, da sempre molto controversi e difficili da definire con precisione.
È bene, anche per questo, non prendere alla leggera questioni di tale entità, le cui implicazioni si ripercuoteranno ineluttabilmente nel futuro anche anteriore della nostra vita e dei nostri discendenti.

Lo Ius Soli postula che il nascere entro i confini di uno Stato conferisce di per sé la cittadinanza nazionale ad una persona straniera. E ciò appare come un diritto locativo senza il quale vi sarebbe emarginazione. Tale motivazione è all’origine, credo, dei ripetuti interventi a favore della legge sia della Santa Sede e sia della CEI. In realtà questo fatto è vero, ma fino ad un certo punto. I migranti, anche clandestini e non richiedenti asilo, ricevono dal nostro Paese sempre soccorsi, aiuti, assistenza, alloggio con generosità che è impossibile anche solo immaginare in qualsiasi altro Continente del mondo e in qualsiasi altro Stato europeo.

Pertanto non è in discussione questo valore umanitario, ma il bene del popolo italiano che soffre, si impoverisce progressivamente e se la passa sempre peggio.
La vera posta in gioco non è dunque riposta a questo livello universale di analisi della questione, ma su di un piano totalmente diverso: quello comunitario.
Non mi risulta che nessun padre della Chiesa e nessun dottore scolastico abbia mai pensato di declinare il concetto universale di natura umana in una società mista e collettiva in cui civiltà con lingue e storie totalmente incomunicabili tra loro debbano condividere la partecipazione politica in un medesimo Stato. Non a caso si parla sempre di popoli, e non di collettività amorfe.

Il personalismo, secondo le parole del suo fondatore Emanuel Mounier, è definito “comunitario” e non “globale”, facendo attenzione proprio alla particolarità delle identità naturali, in primis famiglia e tradizioni nazionali, ritenute da Giorgio La Pira alla Costituente italiana inseparabili dai diritti sociali e personali di ogni singolo cittadino.
Ma che sta succedendo alla nostra Cristianità?
Mentre scrivo sto guardando i copiosi volumi che ho sul tavolo del mio studio della Summa Theologiae di San Tommaso d’Aquino, con accanto Persona ed Atto di Karol Woijtila, e continuo a considerare quelle opere espressione della migliore filosofia cristiana disponibile.
In nessun luogo si parla di un fine politico particolaristico e chiuso, ma in nessun luogo si parla neanche di un multiculturalismo relativista e ghettizzante come quello in atto nelle politiche europee.

Se penso a quanto ho veduto a Parigi nei giorni scorsi, proprio in una visita che ho compiuto tra un attentato e l’altro, resto ancora scosso: un agglomerato urbano che quasi non somigliava più alla città dove sono nate le Università europee e dove ho studiato poco più di quindici anni fa.
Vedere un groviglio maculato di gruppi individualistici che non dialogano tra loro e che non condividono nulla tranne la cittadinanza significa distruggere e non costruire civiltà. Tale trasformazione non ha prodotto la panacea internazionale sperata, ma l’humus di emarginazione che ha generato questo terrorismo di odio e di morte insensato, unito alla potenza crescente del populismo.

Ma cosa stiamo facendo? Pensiamo che un mondo così disorganizzato crei una crescita della persona umana, crei uguaglianza e incremento di umanità?
È un’autentica pazzia questo sogno, un’illusione ottica che sta cancellando i nostri più profondi valori democratici.
Il problema vero, infatti, è proprio che Francia e Gran Bretagna sono le nazioni in cui maggiormente il fine multiculturale è stato portato avanti con radicalità, nazionalizzando culture intere e civiltà diverse dalla propria, e tali Paesi sono quelli che più hanno terroristi che si fanno saltare in aria tra la folla dei loro nuovi “connazionali”.

Lo Ius Soli necessita di essere pensato e ripensato prima di essere approvato, se non altro perché il nostro Paese, al contrario di quegli Stati, ha ancora delle comunità abbastanza compatte e omogenee sul territorio, ossia non ancora tanto multiculturali da non poter più distinguere Roma e Milano da Hong Kong e Pechino.
Dietro questa logica di nazionalizzazione dei nativi, infatti, può nascondersi non l’integrazione, non l’ugualitarismo, non l’universalismo umanizzante, ma il più bieco, brutale e anti cristiano individualismo di massa. Non era Sant’Ambrogio che esortava alla Prudenza come virtù politica per eccellenza?

Ci sia permesso di dire educatamente: tutto ciò può essere, e probabilmente lo è, un modello etico e sociale libertario e ideologicamente progressista, ma non ha nulla da condividere con Bartolomé De Las Casas, Jacques Maritain, Etienne Gilson e con tutta quella che è bene considerare sempre l’autentica “filosofia cristiana”: democratica, personalista e, non dimentichiamolo mai, libera e comunitaria, proprio per essere poi generosa e caritatevole, aperta e disponibile alla pace.
Dobbiamo ritornare di corsa alle nostre radici occidentali. Cominciando proprio da noi cattolici. Altrimenti presto non esisterà più alcuna cittadinanza da poter donare a nessuno, e nessuna fede che possa mostrarsi abbastanza tollerante e umana da potere essere solidale e accogliente con qualcuno.

ius soli, galantino

Ius Soli, multiculturalismo e filosofia cristiana

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