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La pressione nei confronti dei giornalisti stranieri che operano in Turchia sta aumentando. Ancora ieri, il presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan, li ha definiti “spie” dei Paesi da cui provengono, dove per Paesi si intende con poca fantasia quelli del blocco occidentale.

Sempre ieri però è successa una cosa che merita di essere portata alla conoscenza di tutti e chiarita, anche per le implicazioni che questa può avere nella nostra vita di tutti i giorni. Ayla Albayrak, reporter del Wall Street Journal, è stata condannata a due anni e un mese di prigione, con l’accusa di propaganda al Pkk. L’articolo per il quale è stata incriminata è datato 19 agosto 2015.

Il caso ha voluto che io conosca Ayla personalmente da una decina di anni, dividendo con lei l’ufficio per cinque. Ha la doppia nazionalità, il passaporto finlandese e quello turco: questo, sostanzialmente, è il motivo per cui è finita nelle mire della magistratura. Parla in modo fluente diverse lingue, ha una formazione professionale inappuntabile. Gli eventi di cui parla nel suo pezzo (qui l’articolo in questione) sono stati narrati con correttezza, nella drammatica realtà dei fatti. E così giustamente è stata difesa dal Wall Street Journal, la testata per la quale lavora da anni.

Nell’estate del 2015, il sud-est del Paese è stato interessato da un’ondata di violenza nella guerra fra Stato turco e Pkk che non si vedeva da anni. Sono tanti i fattori che hanno concorso a creare questa situazione. Il primo è stato il fallimento della road map fra Stato turco e Pkk, organizzazione terrorista e separatista che era disposta, almeno in alcune sue correnti a interrompere la guerra armata, in cambio dei riconoscimenti costituzionali che la minoranza attende da decenni. Un secondo elemento è il pugno di ferro del presidente Recep Tayyip Erdogan contro il partito curdo Hdp, che aveva preso il 14% dei consensi alle elezioni precedenti e che stava diventando troppo pericoloso. Il terzo è che il sud-est iniziava a essere minacciato anche dagli attacchi dello Stato Islamico, che poi se l’è presa con tutta la Turchia, ma che almeno all’inizio, secondo alcuni analisti, forse in accordo con Ankara stessa, ha colpito soprattutto i curdi.

Ayla è stata testimone della guerra nel sud-est del Paese in questa congiuntura così drammatica e complessa, che non ha quasi trovato riscontro sui media italiani, se si eccettua la versione online de La Stampa. L’ha raccontata come dovrebbe fare un giornalista: descrivendo quello che vedeva e cercando di raccontare la difficile condizione in cui vive la gioventù curda, stretta fra sogni di un futuro più prospero e la frustrazione dell’ennesimo tentativo di avere una vita normale andato male.

Com’è andata a finire lo abbiamo visto tutti. La Turchia si è trasformata in uno Stato sempre più autoritario con oltre 51mila persone in carcere dopo il golpe fallito del 2006 e 134mila che hanno perso il proprio lavoro. I giornalisti stranieri sono nel mirino anche se, a differenza di Ayla non finiscono alla sbarra. Il quotidiano Takvim, una volta ha pubblicato le fotine di 4 corrispondenti, chiamandoli i traditori della Turchia. Modello: sbatti il mostro in prima pagina.

Ho voluto fortemente raccontarvi questa storia perché nel mondo in cui viviamo, anche a causa dell’utilizzo sbagliato dei social network e a volte di una incapacità da parte degli utenti nel sapere selezionare le notizie, e capire quali sono quelle false, rimaniamo vittime della falsificazione della realtà. In Turchia ormai è difficilissimo trovare fonti attendibili, vista la chiusura di molte testate. Ma è un rischio che corriamo tutti e tutti noi giornalisti, almeno quelli che, come me e Ayla, si occupano di Turchia, ci siamo presi almeno una volta dei bugiardi. Anche da chi ha visto le nostre stesse cose, a volte per motivi ideologici, a volte di interesse personale. Il dramma è che può capitare ovunque e a chiunque.

erdogan

Perché il caso di Ayla Albayrak, giornalista condannata in Turchia, va raccontato

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