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Visto il consolidarsi e l’omogeneizzarsi della crescita economica nell’intera eurozona, l’andamento dell’inflazione ed il tasso di cambio dell’euro verso il dollaro sono diventati gli unici argomenti del dibattito corrente, in vista di una normalizzazione della politica monetaria da parte della Bce. Ci sono invece altri, e ben più rilevanti dati economici e finanziari di cui si dovrebbe tener conto per comprendere le attese dei mercati, che continuano a sospingere l’euro verso l’alto e l’inflazione verso il basso, minando la strategia della Bce.

Il primo elemento è rappresentato dal saldo delle partite correnti dell’eurozona, strutturalmente attivo dalla fine del 2011, con ben 373 miliardi di euro conseguiti nel 2016 e 143 miliardi accumulati nel solo primo semestre di quest’anno. Il cambio sul dollaro è in continua ascesa da gennaio scorso, quando era arrivato ad un passo dalla parità, a quota 1,03. Da allora, si è rivalutato del 20%, con il duplice effetto di ridurre le potenzialità dell’export e dunque del contributo di questo alla crescita, e dell’effetto inflattivo determinato dai prezzi all’importazione. Occorre domandarsi se ha davvero senso, anche alla luce degli squilibri internazionali che si determinano soprattutto nei confronti degli Usa, insistere ancora sull’obiettivo di una svalutazione dell’euro in una tale situazione. Gli Usa, infatti, accusano un deficit commerciale strutturale nei confronti della intera Unione europea, che è stato pari a 147 miliardi di dollari nel 2016, rispetto ai 156 miliardi dell’anno precedente. Nel primo semestre di quest’anno, il saldo in questione è stato negativo per 70 miliardi di dollari, di cui ben 30 miliardi nei confronti della sola Germania. Nel 2016, il passivo commerciale americano verso la Germania era stato di 65 miliardi di dollari, rispetto ai 75 miliardi del 2015: è una quota dunque costantemente pari al 50% del passivo complessivo verso l’intera Europa.

Insistere sull’export, anche per quanto riguarda l’Italia, sembra di scarsa utilità: non solo il suo contributo alla crescita è pari a zero, ma da anni si registra un deflusso netto di risorse finanziarie, con un aumento degli investimenti di portafoglio italiani all’estero e dei disinvestimenti dall’estero che supera per dimensione lo stesso attivo commerciale: la politica dei bassi tassi di interesse induce ad investire su altri mercati. La crescita ne soffre pesantemente.

D’altra parte, non si è neppure conseguita la dinamica inflazionistica tanto attesa dalla Bce, tutta fondata sulla svalutazione dell’euro e sul conseguente aumento dei costi all’importazione. Si assiste invece al paradosso di un’area monetaria, già strutturalmente in attivo sul piano del commercio internazionale, che tenta di risolvere i suoi problemi interni di crescita e di stabilità dei prezzi attraverso una politica monetaria volta ancora a svalutare la propria divisa. Anziché concorrere alla eliminazione degli squilibri internazionali, esportiamo le contraddizioni interne all’area: il tasso di cambio dell’euro che pareggerebbe i conti esteri della Germania è incompatibile con quello che servirebbe al resto dell’Eurozona. Anziché puntare ad una inflazione interna da domanda nei Paesi eccedentari, da anni si ricerca invano quella che verrebbe determinata da un aumento generalizzato dei costi all’importazione, aggravando i problemi dei nostri principali partner commerciali.

Il secondo aspetto critico dell’eurozona è rappresentato dalle politiche fiscali recessive adottate in questi anni: nel complesso, il tentativo di pervenire al pareggio strutturale, l’obiettivo fondamentale del Fiscal Compact insieme alla riduzione del rapporto debito/Pil, è stato perseguito aumentando la pressione fiscale, che è passata infatti dal 44,3% del 2010 al 46,7% del 2013, cifra ridimensionata al 46,2% di quest’anno, e tagliando le spese per gli investimenti pubblici, che sono passati dal 3,6% del Pil nel 2009 al 2,5% di quest’anno.

La politica monetaria accomodante della Bce ha invece avuto l’effetto di ridurre il peso degli interessi sui debiti pubblici: è calato dal 3% del Pil, registrato nel secondo trimestre del 2012, al 2,2% di fine 2016. Il suo contributo positivo, pari allo 0,8% del Pil, è stato quindi nettamente inferiore a quello restrittivo determinato dalle politiche fiscali, pari nel complesso al 3% del Pil.

La terza questione si riferisce all’andamento dello stock di debito pubblico dell’eurozona, passato dal 65% del Pil nel 2007 all’89% di fine 2016, dopo aver toccato il picco del 92% a fine 2014. Questa recente contrazione, purtroppo, è ascrivibile unicamente alla Germania, ed è stata determinata dai tassi negativi che paga sul suo debito. Rimborsa infatti un debito inferiore per ammontare a quello contratto inizialmente. Una normalizzazione dei tassi di interesse sui debiti pubblici, visto l’aumento straordinario della loro entità a partire dal 2008, sarebbe esiziale per la crescita economica dell’eurozona. Inoltre, va considerato che sul rapporto debito/Pil influisce in modo determinante l’andamento dell’inflazione, la componente nominale del Pil posto al denominatore della frazione, che rimane ancora molto distante dagli obiettivi del 2%. Si è passati, in termini di variazione annua, dal picco deflattivo del -0,6% registrato nel gennaio 2015 al +1,3% dello scorso luglio, in contrazione rispetto al picco inflattivo del +1,7% registrato nel precedente mese di giugno. L’indice dei prezzi, fatto 100 come media del 2015, a luglio scorso era ancora a quota 101: solo +1% in 18 mesi.

C’è un’ulteriore considerazione da fare, sull’andamento del credito nell’eurozona. Nel complesso, il totale è passato dai 15.256 miliardi di euro del luglio 2008 ai 17.480 miliardi di luglio scorso, con un incremento di 2.224 miliardi. Nella sua composizione, quello verso le Pubbliche amministrazioni è arrivato a luglio scorso al picco di 4.492 miliardi di euro, mentre era di appena 2.460 miliardi nel luglio del 2008 e di 3.676 miliardi di marzo 2015. Le banche europee detengono quindi circa 2 mila miliardi di debito pubblico in più rispetto alla vigilia della crisi, e quasi 800 miliardi di euro in più rispetto alla data di inizio del Qe. La Bce, ad agosto scorso, era invece arrivata a detenere titoli pubblici per 1.704 miliardi di euro.

Il settore privato dell’economia non ha beneficiato in alcun modo dei 2mila miliardi di espansione complessiva del credito, che è stata tutta assorbita dalle Pubbliche amministrazioni: a luglio scorso, infatti, il credito bancario ai privati escluso quello interbancario ammontava a 12.988 miliardi di euro, rispetto ai 12.772 miliardi del luglio 2008 (+216 miliardi) ed al picco di 13.346 miliardi registrato a settembre 2011 (-358 miliardi), pur se in ripresa rispetto al minimo di 12.506 miliardi toccato nel dicembre 2014.

Le più severe regole prudenziali adottate nel settore bancario europeo, mantenendo ferme quelle che favoriscono la sottoscrizione dei debiti pubblici in quanto non assorbono capitale di rischio, hanno dunque drenato l’aumento complessivo del credito totale (+2.224 miliardi) a favore dei soli debiti pubblici (circa 2 mila miliardi in più), spiazzando completamente il credito ai privati (+216 miliardi). Neppure il consistente acquisto di titoli pubblici sul mercato secondario da parte della Bce, nell’ambito del Qe, ha determinato un beneficio in termini di maggiori erogazioni di credito all’economia privata.

Non basta dunque guardare solo al dato dell’inflazione e, strumentalmente, al tasso di cambio con il dollaro in quanto influisce da un lato sull’export e dall’altro sui costi dell’import: occorre un visione complessiva, che valuti il contributo negativo alla crescita determinato dalle dinamiche delle finanze pubbliche, per via dell’aumento della pressione fiscale e della riduzione delle spese per investimenti, e non solo in termini di riduzione del deficit; che eviti distorsioni ulteriori nei rapporti internazionali, oltre quelle già determinate dall’attivo commerciale strutturale dell’Eurozona sulla base di un tasso di cambio sul dollaro troppo favorevole all’economia tedesca; che ponga rimedio  alla stretta creditizia cui è sottoposto il settore privato dell’economia.

Il mercato sa bene che un nuovo scivolamento dell’euro sul dollaro sarebbe foriero di gravi rischi internazionali, e che i tassi negativi sui debiti rappresentano una soluzione non più praticabile a lungo.

Servono politiche monetarie e fiscali asimmetriche, in un’area in cui le economie hanno problemi diversi e velocità incomparabili: la moneta unica è di per sé un elemento che cela le diversità, senza eliminarle. Non si possono adottare le stesse politiche monetarie e fiscali in Grecia ed in Germania, quando si tratta di economie e di Stati agli antipodi su tutto.

Otto anni di incubazione della crisi, a partire dall’adozione dell’euro, non hanno insegnato niente. Neppure gli ulteriori otto anni, trascorsi da allora, sono serviti a molto. Davvero difficile fare peggio.

Perché i mercati spingono l'euro minando la strategia della Bce

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